Mario Capecchi: il Nobel italiano che non parla italiano

Mario Capecchi: il Nobel italiano che non parla italiano

Dall’affidamento presso una famiglia sudtirolese a vagabondo, da tesista di James Watson a Nobel per la medicina nel 2007. Mario Capecchi, l’italiano trapiantato in America che ha scoperto come silenziare i geni

La vita di Mario Capecchi ricorda quella di un film dai mille colpi di scena che si conclude con un lieto fine. Nato a Verona nel 1937, rimase presto senza il padre, chiamato a combattere in Libia durante il colonialismo fascista. Sua madre, americana, fu arrestata e deportata a Dachau per le sue attività contro il regime nazista tedesco e Mario Capecchi, a soli cinque anni, fu affidato a una famiglia di contadini del Sudtirolo. La permanenza non durò molto perché la famiglia non aveva più soldi per mantenerlo e solo un anno più tardi il piccolo Mario si ritrovò per strada. Capecchi ancora oggi ricorda bene alcuni momenti del suo vagabondaggio, tra bande di “bambini di strada” e orfanotrofi.

Mario Capecchi da giovane in una foto dell’album di famiglia.

Macilento, malnutrito e affetto da tifo, fu raccolto circa tre anni dopo da uno sconosciuto che lo affidò a un ospedale di Reggio Emilia, dove alloggiavano tanti altri bambini, anch’essi in condizioni precarie. Proprio qui venne finalmente ritrovato dalla madre che, a guerra finita, si era messa a cercarlo disperatamente. L’anno seguente, nel 1946, insieme sbarcarono in America, accolti in una comunità di quaccheri. L’arrivo nel “Nuovo Mondo” determinò una svolta importante: era l’inizio della sua vita da americano, lontano dagli orrori della guerra, della malnutrizione e della solitudine.

«Mi aspettavo di vedere le strade lastricate d’oro in America – racconta Capecchi in una biografia del 2007 –  Ho trovato molto di più: opportunità».

Mario, infatti, iniziò per la prima volta a studiare, cominciò l’Università e dopo un primo breve periodo a Scienze Politiche si laureò in chimica e fisica, ma si appassionò alla biologia molecolare. Durante il dottorato in biofisica a Harvard (conseguita nel 1967) conobbe James Watson in persona, suo supervisore di tesi e premio Nobel per la scoperta del DNA. Una conoscenza importante per Capecchi, specialmente per quanto riguarda il modo di fare scienza e la crescita come scienziato.

Lo stesso Watson lo ricorda come uno studente capace e in grado di produrre molto più «di quanto non abbiano fatto la maggior parte degli scienziati nella propria vita».

Diventato professore associato nel 1971 alla Harvard School of Medicine, si spostò qualche anno più tardi all’Università dello Utah, dove lavora tuttora. Capecchi collabora dal 1988 anche con l’Howard Hughes Medical Institute ed è membro della National Academy of Science.

Mario Capecchi ha ricevuto numerosi riconoscimenti, anche nella sua terra natale, come il titolo di dottore honoris causa in biotecnologie mediche all’Università di Bologna nel maggio 2007. Proprio qualche mese prima che gli venisse riconosciuto il Nobel per la medicina per la sua scoperta più importante, il gene targeting.

Diploma del Nobel assegnato a Mario Capecchi nel 2007 per la scoperta dei «principi per introdurre specifiche modificazioni genetiche nei topi con l’uso di cellule staminali embrionali».

Questa tecnica, che fa uso di cellule staminali, consiste nella possibilità di spegnere i geni di un organismo come fossero interruttori. Si può quindi cancellare in maniera precisa e selettiva un gene o inserire in esso piccole mutazioni per vedere qual è la sua funzione. Grazie a questa intuizione si è riusciti a creare i cosiddetti topi knock-out“: animali che presentano alcuni geni non operativi e sui quali è possibile studiare molte malattie come diabete e cancro. Questa strategia è ormai usata in tutto il mondo per trovare nuovi farmaci e trattamenti.

Oggi Mario Capecchi vive con la famiglia in un cottage nell’Utah, in costante contatto coi suoi collaboratori. Non sa una parola di italiano (ad eccezione di “Ciao”), ma ricorda benissimo le sue esperienze da bambino in Italia. Ogni tanto, specie da quando gli è stato assegnato il Nobel, riceve lettere da persone che dicono di averlo conosciuto durante il suo periodo di vagabondaggio. Ricorda con particolare piacere quella del prete che gestiva l’orfanotrofio di Reggio Emilia dove era finito prima di essere ritrovato dalla madre. Ha perfino scoperto di avere una sorella, nata due anni dopo di lui dalla stessa madre e anche lei data in adozione durante la guerra. La donna sapeva di avere un fratello, ma non aveva mai scoperto la sua identità fino alla consegna del Nobel a Mario Capecchi. Nel 2008 i due si sono incontrati per la prima volta a Renon, piccolo paese del Sudtirolo dove Mario aveva vissuto con la madre i primi anni della sua vita.