Planck

Max Planck, un rivoluzionario suo malgrado

Storia di un uomo tranquillo e della sua costante che cambiò il modo di concepire il mondo

Il 20 luglio del 1944 un gruppo di politici e militari tedeschi tentò di uccidere Hitler. L’attentato fallì e la repressione fu tremenda. Tra le persone implicate nella vicenda c’era Erwin Planck, il figlio di Max Planck, fisico tedesco considerato il padre della meccanica quantistica. Planck, ormai quasi novantenne, cercò di usare il prestigio di cui godeva per salvare la vita del figlio e scrisse una lettera al Führer impetrando la grazia, ma la sua richiesta non venne ascoltata. Erwin fu giustiziato nel 1945.

La guerra ha accompagnato tutta la vita del fisico tedesco. Nato nel 1858, a soli sei anni aveva assistito all’ingresso delle truppe prussiane nella sua città natale. Nel 1916 il figlio primogenito, Karl, era stato ucciso nella battaglia di Verdun e nel 1944 la sua casa era stata distrutta dai bombardamenti alleati privandolo di tutti i suoi averi e, soprattutto, dei manoscritti dei suoi lavori scientifici.

Max Planck nel 1878

Planck apparteneva a una famiglia di teologi, accademici e giuristi conservatori; non era uno studente brillante, ma molto diligente. Pensava di non essere particolarmente dotato per la fisica, come scrisse lui stesso in una lettera indirizzata a Joseph Strauss, e di natura era un uomo tranquillo e riflessivo che non reagiva «rapidamente alla stimolazione intellettuale». Come ricorda Heilbron, nel suo libro I dilemmi di Max Planck, i pilastri del suo carattere erano: il rispetto per la legge, la fiducia nelle istituzioni, il senso del dovere e l’assoluta onestà. Qualità che lo portarono alla decisione di rimanere direttore dell’Istituto “Kaiser Wilhelm” (l’attuale Max Planck Institute) per cercare di fare tutto quello che era in suo potere per aiutare coloro che, a causa della promulgazione delle leggi razziali, avevano perso il lavoro. Come ricordò lui stesso in un’intervista rilasciata nel dopoguerra, chiese un colloquio con Hitler per convincerlo che l’emigrazione forzata degli ebrei avrebbe ucciso la scienza tedesca, parlando anche in favore di Fritz Haber, figura controversa, ma pur sempre un brillante scienziato. Ma Hitler andò in escandescenze e lui fu costretto ad andarsene.

A scuola si applicò con costanza riuscendo bene in tutte le materie, specialmente in musica; questo non rese immediata la sua scelta della carriera universitaria. Alla fine si dedicò allo studio della fisica perché, come ricorda nella sua autobiografia, «il mondo esterno è qualcosa di indipendente dall’uomo, qualcosa di assoluto, e la ricerca di leggi che si applicano a questo assoluto mi appariva come la più sublime ricerca scientifica nella vita». E fu sempre questa ricerca dell’assoluto che lo portò nel 1879 a conseguire il dottorato a soli ventun’anni con una tesi sulla seconda legge della termodinamica.

Nel 1885 conobbe uno studente di fisica, futuro premio Nobel, Wilhelm Wien, con cui strinse una lunga amicizia. Furono i suoi lavori sull’elettromagnetismo e la termodinamica, insieme a quelli di Lord Rayleigh, che nel 1900 condussero Planck alla derivazione della formula che oggi porta il suo nome.

Da sinistra a destra: W. Nernst, A. Einstein, M. Planck, R.A. Millikan and von Laue ad una cena a casa di von Laue nel 1931.

Planck ipotizzò che la radiazione emessa da un oggetto sottoposto a riscaldamento potesse essere spiegata rappresentando l’oggetto come formato da risuonatori, cioè da molle con delle cariche attaccate alle estremità che, messe in oscillazione, cominciassero ad emettere energia ad una determinata frequenza. Tuttavia continuava a considerare infiniti i modi in cui queste molle potessero oscillare, così come prescriveva la meccanica classica. Ma questo non concordava con i risultati sperimentali ad alte energie.

Decise, quindi, come «atto di disperazione» di introdurre nella sua trattazione i concetti di fisica statistica sviluppati da Boltzmann. Ovvero impose che le frequenze a cui potessero oscillare le molle fossero solo alcune e che l’energia emessa dalle cariche potesse assumere solo valori discreti, multipli interi di una costante che indicò con h, chiamati quanti. Era nata la fisica quantistica. Questo gli valse il premio Nobel nel 1918.

Uomo profondamente religioso, considerava «una grazia del Cielo che la fede nell’Eterno sia radicata profondamente in me fin da bambino». Nel 1937 tenne una conferenza dal titolo «Religione e scienza naturale» in cui metteva in evidenza come non ci sia alcun contrasto tra scienza e fede. Infatti «l’una non esclude l’altra; piuttosto sono complementari e mutuamente interagenti. L’uomo ha bisogno della scienza come strumento di percezione; ha bisogno della religione come guida all’azione».

Nel primo dopoguerra fu nominato nuovamente presidente dell’Istituto “Kaiser Wilhelm” e contribuì alla ricostruzione della scienza tedesca. Ancora una volta la sua forza d’animo aveva vinto la battaglia contro la vita. Del resto nel 1942, cinque anni prima di morire, aveva scritto a Kippenberg «In me è cresciuto un ardente desiderio di resistere a questa crisi e vivere abbastanza a lungo per essere in grado di testimoniare il punto di svolta, l’inizio di una nuova rinascita». E così è stato.