Plastica

Se la plastica diventa un incubo: l’isola rifiutata del Pacifico

Nell’oceano Pacifico esiste un’isola candidata ad avere un sindaco, francobolli dedicati e passaporto, oltre che 1800 miliardi di detriti di plastica come abitanti. Si tratta del Great Pacific Garbage Patch, la più grande isola di spazzatura del mondo
di CARMELA DE STEFANO, ABDOU DIOUF, GLORIA GIOVANNELLI e NICOLA STANZIONE

La plastica è il materiale del secolo, il miracolo del dopoguerra, la grande conquista della chimica. È sinonimo di modernità, simbolo del design, della forma e della bellezza. Ma un grande successo è diventato anche un grande problema. Dagli anni ’50, quando il premio Nobel Giulio Natta inventò il Moplen, ad oggi abbiamo prodotto 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Gran parte degli oggetti di uso comune, dallo spazzolino da denti fino ai sacchetti della spesa, sono composti di questo materiale, che ha prepotentemente invaso la nostra quotidianità. Usiamo bicchieri di plastica per bere, posate di plastica per mangiare, tessuti sintetici di plastica per vestirci. Microparticelle di plastica sono presenti anche negli shampoo, nei dentifrici, nel sapone, nell’aria che respiriamo, nell’acqua e nel cibo di cui ci nutriamo. Se fosse un Paese, la plastica sarebbe la ventottesima economia del mondo. Un’ipotesi non molto lontana se si considera che, nel Pacifico settentrionale, si trova una gigantesca isola di plastica galleggiante, che aspetta solo di ottenere un riconoscimento politico ufficiale. Si tratta del Great Pacific Garbage Patch, la più grande zona di accumulo di rifiuti galleggianti al mondo. Secondo una ricerca redatta dalla fondazione olandese Ocean Cleanup e pubblicata su Scientific Reports, questa enorme concentrazione di immondizia è formata attualmente da almeno 79 mila tonnellate di plastica, distribuite su un’area di 1,6 milioni di chilometri quadrati. Un’immensa chiazza di rifiuti plastici in continua espansione, grande cinque volte e mezzo l’Italia.

Plastica Mappa

Quando si pensa alla California o alle Hawaii, l’immaginazione viaggia tra le spiagge dorate, le dolci colline e le ruggenti motociclette di Los Angeles oppure alle isole verde smeraldo lambite dal blu cobalto del Pacifico. Eppure, proprio in questa regione, si trova uno degli scenari più tragici a cui l’uomo abbia mai assistito e di cui è responsabile. Qui le correnti oceaniche formate dai venti creano una zona di convergenza, in cui si accumulano enormi quantità di rifiuti plastici destinati a rimanere intrappolati nel vortice per anni. Con una grande campagna di raccolta dati promossa da Ocean Cleanup, sono stati effettuati 625 campionamenti sulla superficie dell’oceano e 7000 fotografie aeree, che hanno permesso di stimare la concentrazione di micro e macro detriti di plastica accumulati su una superficie di circa 300 km2. I dati contenuti nello studio sono allarmanti: tra paperelle di plastica e scarpe da tennis, ci sarebbero 1800 miliardi di pezzi di plastica, di cui il 94% sono microplastiche. Esse rappresentano l’8% della massa totale, mentre le reti da pesca contribuiscono per il 46% e il restante della massa è rappresentato da contenitori, bottiglie, coperchi, cavi, secchielli e nastri da imballo. Nonostante l’inquinamento più appariscente sia quello dovuto a oggetti voluminosi, che soffocano e imprigionano gli organismi marini, quello più subdolo è rappresentato proprio dalle microplastiche, minute particelle che possono essere scambiate per cibo e ingerite da pesci, molluschi e crostacei. Questi detriti di dimensioni millimetriche si accumulano cosi nei tessuti, diventando poi ingrediente comune dell’intera catena alimentare, fino ad arrivare sui nostri piatti, con conseguenze sconosciute.

Sebbene non sia ancora possibile trarre conclusioni definitive sulla persistenza dell’inquinamento plastico nel Great Pacific Garbage Patch, questo tasso di accumulo all’interno del GPGP, maggiore rispetto alle acque circostanti, indica che l’afflusso di plastica nell’isola continua a superare il deflusso”, ha affermato Laurent Lebreton, uno degli autori principali dello studio. Un quadro, questo, che conferma i dati riportati da un recente documento dell’Unep (United Nations Environment Programme), in cui si stima che attualmente il consumo medio annuo di plastica è pari a 320 milioni di tonnellate, di cui 8 milioni finiscono negli oceani.

L’inquinamento da plastica non conosce confini geografici. Quella del Pacifico è la più grande, ma non l’unica isola di plastica al mondo. È di poche settimane fa la pubblicazione dei risultati di una campagna di monitoraggio dei mari italiani. I dati raccolti dall’Istituto di Scienze Marine del Cnr di Genova, dall’Università Politecnica delle Marche e da Greenpeace Italia sono preoccupanti. “Abbiamo rilevato la presenza di plastiche in tutti i campioni di acque analizzati. In alcuni siti i livelli di densità erano paragonabili a quelli misurati nel Pacifico”, ci spiega Marco Faimali, ricercatore dell’Ismar-Cnr. “La maggior parte di queste plastiche arriva in mare da attività antropiche terrestri. Essendo il Mediterraneo un mare chiuso, è anche uno di quelli più potenzialmente inquinabili e inquinati”. I campionamenti sono stati eseguiti in 19 siti lungo la costa italiana, da Genova ad Ancona, sia in zone sottoposte a un forte impatto antropico, come foci di fiumi e porti, sia in aree marine protette. I livelli più alti di microplastiche sono stati misurati nelle acque di Portici (Napoli), dove si trovano valori pari a 3,56 frammenti per metro cubo. L’inquinamento da plastica potrebbe, però, non fermarsi al livello micro. “La grande preoccupazione degli scienziati è che si sta andando verso plastiche di dimensioni sempre più piccole. Per fare un esempio, i campionamenti nel Mediterraneo contengono per il 30-40% frammenti di poche centinaia di micron, ben al di sotto della misura di un millimetro. Si presuppone, addirittura, che possano esserci particelle di plastica delle dimensioni di nanometri (inferiori a un micron), ma gli studi in merito sono ancora pochi”. Infatti, una volta in mare, le plastiche possono andare incontro a processi di frammentazione fisica, chimica e biologica, dai quali si formano particelle di dimensioni più piccole, potenzialmente pericolose. Ma il primo ostacolo alla rilevazioni di queste particelle è di natura tecnica: “La maggior parte dei campionamenti viene fatta usando un retino Manta che ha delle maglie che non permettono di prelevare frammenti inferiori ai 333 micron. Di conseguenza, non siamo in grado di dire se nei nostri campionamenti ci siano anche nanoplastiche. Per poterlo determinare occorrono strumentazioni e approcci diversi”, continua Faimali. “Per ora i dati ottenuti in laboratorio ci dicono che non ci sono delle grosse evidenze di effetti acuti causati dalle microplastiche sugli organismi: la maggior parte le ingerisce ed espelle senza conseguenze, probabilmente perché le dimensioni dei frammenti restano le stesse anche nel dotto intestinale e non passano quindi nei tessuti. La preoccupazione è che non sappiamo cosa potrebbe accadere con le nanoplastiche”. E se, a oggi, non ci sono evidenze di laboratorio di effetti acuti causati sui pesci dalle microplastiche, ancora da chiarire è l’effetto cronico sugli organismi che vivono in mare.

Oggi si produce 20 volte più plastica che negli anni Settanta e, se non si metterà un freno alla situazione, entro il 2050 la massa di plastica negli oceani supererà in peso quella di tutti i pesci marini. Sono in fase di studio diverse tecnologie per il cleaning del mare, da installare in corrispondenza delle foci dei fiumi, degli scarichi industriali o dei porti, ovvero lì dove arriva la maggior parte di questi rifiuti. Secondo la fondazione olandese Ocean Cleanup, ripulire gli oceani da questa spazzatura di plastica richiederebbe miliardi di dollari e migliaia di anni, un’impresa destinata al fallimento. Per questo motivo, l’unica opzione percorribile è tagliarne drasticamente la produzione, sostituendo i materiali responsabili del suo rilascio: basti pensare che una felpa sintetica genera in lavatrice quasi 2000 microframmenti di plastica, circa il 180% in più delle fibre rilasciate da un maglione di lana.

 “Come eliminare le microplastiche usando il muco delle meduse”
GoJelly è un progetto dell’Unione europea che ha l’obiettivo di creare dei filtri anti-plastica a partire dal muco prodotto dalle meduse

Eliminare il problema dell’inquinamento da microplastiche e, al contempo, quello delle meduse che invadono le nostre coste. Queste alcune delle finalità del progetto europeo GoJelly, finanziato dal programma Horizon 2020 e coordinato dal Geomar Helmholtz center for ocean research di Kiel, in Germania.  Tra i partner italiani figura l’Istituto di scienze delle produzioni alimentari del Consiglio nazionale delle ricerche (Ispa-Cnr). Il progetto, iniziato a gennaio 2018, avrà durata quadriennale. Le meduse sono comunemente considerate più un problema che una risorsa. Ma i ricercatori del progetto GoJelly hanno deciso di ribaltare questa visione. In che modo? Sfruttando il muco che producono per risolvere il problema dell’inquinamento da microplastiche. Questa sostanza gelatinosa verrà utilizzata per progettare un prototipo di filtro antiplastica. “Gli studi hanno dimostrato che il muco delle meduse può legare le microplastiche. Per questo, vogliamo testare se possono essere prodotti biofiltri dalle meduse”, hanno spiegato i ricercatori del progetto. “Questi biofiltri potrebbero essere utilizzati in impianti di trattamento delle acque reflue o in fabbriche dove viene prodotta la microplastica“.

Krill, attento a quello che mangi
Dalle microplastiche alle nanoplastiche: la trasformazione comincia nella pancia del krill dell’Antartico

Il krill dell’Antartico si nutre della plastica che, smaltita in modo scorretto, finisce nei nostri mari. A mostrarlo, in uno studio pubblicato su Nature Communications, l’équipe di Amanda Dowson, della Griffith University Australia. I risultati del lavoro evidenziano inoltre che le microplastiche ingerite dal krill, una volta digerite, si riducono di dimensioni. Euphausia superba, chiamato comunemente krill dell’Antartico, è un piccolo crostaceo di zooplancton dall’aspetto peculiare: il suo corpo infatti è quasi completamente trasparente, vive in banchi numerosissimi e costituisce la principale fonte alimentare della fauna marina nei mari freddi. L’apparato digerente di questo gamberetto è costituito da uno stomaco e una ghiandola digestiva, paragonabile all’intestino umano, dove avviene l’assorbimento dei nutrienti. La principale fonte di questi nutrienti sono le alghe (fitoplancton) che fluttuano poco sotto la superficie dell’oceano e che troppo spesso si mescolano con diversi agenti inquinanti. Per comprendere le abitudini alimentari del krill, i ricercatori hanno ricreato in laboratorio l’ambiente marino mescolando al fitoplancton il micro-polietilene, un materiale plastico di uso comune che, in questo ambiente riprodotto, il piccolo crostaceo ha ingerito come fosse di origine organica: l’esperimento ha evidenziato che, progredendo all’interno dell’apparato digerente, le particelle di microplastica si riducono da 30 a 6 micron, grandezza molto più simile a quella di agglomerati di nanoparticelle (dell’ordine di un milionesimo di millimetro). Lo studio, in sostanza, ha dimostrato la capacità di una specie chiave nella catena alimentare di cambiare fisicamente le microplastiche ingerite, in un modo mai descritto in precedenza: in natura, dunque, può avviarsi la produzione biologicamente facilitata di nanoplastiche con dimensioni  talmente piccole che sfuggono al monitoraggio dell’inquinamento ambientale.

L’Unione Europea fa sul serio: basta alla plastica monouso
Bastoncini cotonati, posate, piatti, cannucce, agitatori per bevande e bastoncini per palloncini, contenitori per bevande, contenitori per alimenti, bicchieri di plastica e attrezzi da pesca: sono questi i prodotti incriminati. Che, insieme, rappresentano il 70% dei rifiuti marini

Una volta i continenti erano solo cinque (Europa, Asia, Africa, America, Antartide e Oceania), adesso a questi si sono aggiunti altri cinque “continenti”. Cinque grandi isole sparse per i mari del mondo, tutte interamente composte da plastica, per un’estensione totale di circa 15 milioni di chilometri. Anche se i rifiuti prodotti dall’Unione Europea sono solo una piccola parte (l’80% dei rifiuti sono asiatici), l’Europa non resta a guardare e  attraverso la nuova normativa approvata il 28 Maggio dalla Commissione Europea ha deciso di intervenire concretamente su un un problema che ha implicazioni mondiali.

Le nuove regole introdurranno:

  • il divieto di commercializzare determinati prodotti di plastica – dove esistono alternative facilmente disponibili ed economicamente accessibili, i prodotti di plastica monouso saranno esclusi dal mercato. Il divieto si applicherà a bastoncini cotonati, posate, piatti, cannucce, mescolatori per bevande e aste per palloncini, tutti prodotti che dovranno essere fabbricati esclusivamente con materiali sostenibili. I contenitori per bevande in plastica monouso saranno ammessi solo se i tappi e i coperchi restano attaccati al contenitore;
  • obiettivi di riduzione del consumo –gli Stati membri dovranno ridurre l’uso di contenitori per alimenti e tazze per bevande in plastica. Potranno farlo fissando obiettivi nazionali di riduzione, mettendo a disposizione prodotti alternativi presso i punti vendita, o impedendo che i prodotti di plastica monouso siano forniti gratuitamente;
  • obblighi per i produttori– i produttori contribuiranno a coprire i costi di gestione e bonifica dei rifiuti, come pure i costi delle misure di sensibilizzazione per i seguenti prodotti: contenitori per alimenti, pacchetti e involucri (ad esempio, per patatine e dolciumi), contenitori e tazze per bevande, prodotti del tabacco con filtro (come i mozziconi di sigaretta), salviette umidificate, palloncini e borse di plastica in materiale leggero. Sono anche previsti incentivi al settore industriale per lo sviluppo di alternative meno inquinanti;
  • obiettivi di raccolta– entro il 2025 gli Stati membri dovranno raccogliere il 90% delle bottiglie di plastica monouso per bevande, ad esempio, introducendo sistemi di cauzione-deposito;
  • prescrizioni di etichettatura –alcuni prodotti dovranno avere un’etichetta chiara e standardizzata che indica come devono essere smaltiti, il loro impatto negativo sull’ambiente e la presenza di plastica. Questa prescrizione si applica agli assorbenti igienici, alle salviette umidificate e ai palloncini;
  • misure di sensibilizzazione –gli Stati membri dovranno sensibilizzare i consumatori all’incidenza negativa della dispersione nell’ambiente dei prodotti e degli attrezzi da pesca in plastica, ai sistemi di riutilizzo disponibili e alle migliori prassi di gestione dei rifiuti per questi prodotti.

Adesso l’ambizioso progetto della Commissione europea è in attesa di approvazione definitiva da parte del Parlamento Europeo.