immunoterapia

La genetica molecolare a supporto dell’immunoterapia

Identificati i geni responsabili dell’attivazione immunitaria contro il tumore, si apre la strada a nuove potenziali terapie cellulari. L’immunoterapia come arma contro il cancro torna a far parlare di sé dopo il Nobel per la Medicina del 2018 

Quanto influisce la genetica nella risposta immunitaria anticancro? Questa la domanda alla base dello studio capitanato da Davide Bedognetti dell’Università di Genova e direttore del Cancer Program del Sidra Medicine di Doha, in collaborazione con l’Università della California di San Francisco. I risultati, pubblicati sulla rivista Immunity, mostrano che alcuni dei geni responsabili della risposta immunitaria predispongono a una maggiore produzione e infiltrazione di globuli bianchi nel tumore, in particolare di cellule Natural Killer e di un sottotipo di linfociti T, che giocano un ruolo chiave nel riconoscimento e nella distruzione delle cellule tumorali.  

Gli scienziati hanno esaminato quasi 11 milioni di varianti genetiche in circa 9000 pazienti con 30 diversi tipi di cancro, identificando 20 regioni del genoma con effetto immunomodulante. Il background genetico, dunque, determinerebbe la risposta immunitaria spontanea e spiegherebbe perché alcuni pazienti sviluppino, nei confronti del tumore, una reazione immunologica migliore di altri. Il team di ricercatori ha inoltre scoperto il ruolo di un pool genico che controlla la via dell’interferone, un meccanismo coinvolto nell’azione antivirale e antitumorale. Un’elevata attività dell’interferone – spiega Bedognetti – si associa a maggiori chance di risposta all’immunoterapia: una concentrazione maggiore di interferone nella sede del tumore richiama altre cellule immunitarie attive nel tumore, che a loro volta produrranno altro interferone, attivando un circolo virtuoso che si autoalimenta. 

A gettare le basi del lavoro di Bedognetti è stata la scoperta che nel 2018 è valsa il Nobel per la Medicina. Lo statunitense James P. Allison e il giapponese Tasuku Honjo si aggiudicarono il prestigioso premio per essere riusciti a trattare il cancro mediante l’inibizione della regolazione immunitaria negativa. Osservarono rispettivamente che la proteina Ctla-4 e la Pd-1, espresse sulla superficie delle cellule T, agiscono da freno, inibendo la risposta immunitaria – un meccanismo utile per preservare le cellule “self”, cioè quelle del nostro organismo, ma che si rivela svantaggioso se si deve contrastare un tumore. Allison e Honjo svilupparono degli anticorpi in grado di legarsi a queste proteine recettoriali dei linfociti T, rendendole inefficaci: sono i cosiddetti “inibitori del checkpoint immunitario”, in grado di disattivare il freno e garantire così l’attività della risposta immunitaria. La terapia si è dimostrata efficace nel trattare alcuni tipi di cancro, come quello del polmone, della vescica, del rene, il linfoma e il melanoma in stadio avanzato.

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Tasuku Honjo e James P. Allison in conferenza stampa, Stoccolma, dicembre 2018. Credit: Wikipedia Commons

Le immunoterapie usano quindi armi in dotazione al nostro stesso organismo, col vantaggio di bersagliare solo le cellule neoplastiche, al contrario per esempio della chemioterapia, che può danneggiare anche quelle sane. Tuttavia, non sono adatte a trattare tutti i tumori: falliscono almeno nel 60% dei casi e talvolta scatenano – per indotta iperattività del sistema immunitario – una reazione autoimmune. La scoperta di Bedognetti e del suo team permette di prevedere, con buona approssimazione, la risposta del paziente all’immunoterapia. Attraverso dei test genetici studiati ad hoc sarà possibile selezionare i pazienti adatti, il che potrebbe condurre a una stratificazione delle terapie e all’identificazione di nuovi target farmacologici. Proprio la personalizzazione delle cure potrebbe essere, e sperabilmente sarà, la nuova frontiera dell’onco-immunoterapia.