Microbioma: anche la genetica vuole la sua parte

Microbioma: anche la genetica vuole la sua parte

Uno studio condotto all’università di Notre Dame cambia la prospettiva sul ruolo del genoma dell’ospite nel determinare il profilo del microbioma intestinale, rivelando che i nostri geni hanno molto più da dire di quanto si pensasse

14 anni e 585 babbuini selvatici: ecco i due elementi distintivi che hanno permesso al gruppo di Elisabeth Archie dell’università di Notre Dame di rivoluzionare la visione della genetica in materia di microbioma. Lo studio, pubblicato su Science, evidenzia come i geni dell’ospite, da sempre relegati dietro le quinte, abbiano invece un ruolo universale e pervasivo nella definizione del profilo microbico intestinale.
Ma cosa rende questa scoperta importante?


Il microbioma rappresenta l’insieme del patrimonio genetico degli organismi che abitano il nostro corpo, con cui fin dalla nascita instauriamo una relazione simbiotica di dipendenza reciproca: in cambio di vitto e alloggio, i batteri ci offrono numerosi benefici, metabolici e fisiologici, fondamentali per la nostra sopravvivenza. In particolare, il tratto gastrointestinale rappresenta un complesso ecosistema, dove circa cento miliardi di organismi, di centinaia di specie diverse, contribuiscono alla nostra salute, per esempio degradando per noi alimenti altrimenti indigeribili, producendo vitamine essenziali e proteggendoci da specie microbiche nocive. E quando questo ecosistema viene alterato (disbiosi) l’organismo ne risente, diventando più suscettibile o direttamente soffrendo di varie patologie.
La composizione del microbioma è strettamente legata all’ambiente in cui nasciamo e cresciamo, alla dieta e ai farmaci che assumiamo. Questi elementi concorrono nel creare un ambiente gastrointestinale favorevole o meno per specie diverse, delineando un profilo microbico (quali e quanti tipi di organismi) specifico per ognuno di noi.
Ma non basta: anche il nostro patrimonio genetico ha una sua influenza, che da tempo si è cercato di quantificare. Conoscere infatti il grado di ereditabilità del microbioma rappresenta un obiettivo rilevante in questo campo di ricerca, poiché permetterebbe di comprendere quali tratti sono sotto il controllo dell’ospite e come l’abbondanza batterica si connette con i nostri pathway genetici ed eventuali stati patologici.

L’ereditabilità del microbioma è una questione controversa: è noto che individui imparentati tra loro presentano profili microbici più simili rispetto ad estranei, i gemelli in particolare condividono il maggior grado di similitudine. Tuttavia, identificare la componente genetica non è banale, poiché oltre ai geni, gemelli e parenti hanno in comune anche l’ambiente e lo stile di vita.
Allo stato attuale, la ricerca scientifica ha relegato la genetica ad un ruolo marginale, riportando solo il 3-13% dei microbi intestinali come scarsamente ereditabile.
Tuttavia, alla maggior parte degli studi mancava qualcosa: 14 anni e 585 babbuini selvatici, per l’appunto.
Lo studio dell’università di Notre Dame si differenzia infatti per l’approccio longitudinale e la grande dimensione del campione, dettagliatamente caratterizzato. Il gruppo di Elisabeth Archie ha raccolto, per 14 anni, più di 16.000 campioni fecali da 585 babbuini appartenenti a 10 diversi gruppi sociali nel parco nazionale dell’Amboseli in Kenya. Lo studio, dunque, è riuscito a collezionare una media di 28 campioni per singolo individuo, di cui sono state annotate le condizioni ambientali, la dieta, l’albero genealogico e la posizione sociale, ottenendo in questo modo una visione ampia e dettagliata dei maggiori elementi di influenza del microbioma. L’analisi delle sequenze di Rna (quindi dei geni espressi) dei campioni ha mostrato che il 97% dei tratti del microbioma è ereditabile, seppur debolmente, e che alcuni di questi coincidono con quei pochi già riconosciuti ereditabili negli esseri umani, facendo presuppore che forse, nei precedenti studi, qualcosa è sfuggito.

Questo studio amplia la conoscenza delle caratteristiche del microbioma, proponendo una visione in cui la genetica dell’ospite gioca un ruolo minore rispetto all’ambiente ma universale e pervasivo e pone l’accento sull’importanza di campioni estesi e collezionati nel tempo, elementi spesso assenti negli studi sul microbioma umano. E ci dice che, alla fine, anche la nostra identità ha una “voce” (genetica) nella selezione dei nostri inquilini.

Immagine in evidenza: {Ramon Vloon}