Sus arvernensis, cronache di neuroanatomia su un cinghiale di tre milioni di anni

Sus arvernensis, cronache di neuroanatomia su un cinghiale di tre milioni di anni

Scoperto il più completo fossile di neurocranio di Sus arvernensis, una specie di piccolo cinghiale vissuto nel Pliocene. Il team di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza Universtà di Roma, grazie a una Tac, ne ha ricostruito il cervello, evidenziandone analogie e differenze con due specie attualmente esistenti

La parola “cinghiale”, il più delle volte, desta, tanto in chi la pronuncia quanto in chi la sente pronunciare, pensieri, memorie ed emozioni legate alle arti culinarie. In altre parole, la genesi della reazione spontanea avviene fra le papille gustative e lo stomaco e non coinvolge di certo quella parte razionale e colta molto più affine a parole come scienza o letteratura. Ebbene, in questo caso la scienza stessa, più precisamente la paleontologia, ha avuto la capacità di ribaltare l’ordine delle cose. Un gruppo di ricercatori affiliati al dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza Università di Roma ha scoperto il più completo neurocranio fossile di Sus arvernensis, una piccola specie di cinghiale, 50 kg circa, vissuta in Europa nel Pliocene, ovvero tre milioni di anni fa.  L’inaspettato rinvenimento è avvenuto a ridosso della cittadina di Collepardo, in provincia di Frosinone, dove, in un blocco di travertino, gli scienziati hanno trovato il neurocranio fossile dell’animale. La scoperta ha rappresentato, però, solo il primo tassello di un più ampio e interessante lavoro pubblicato su Historical Biology, vale a dire la completa ricostruzione del cervello di Sus arvernensis e la successiva comparazione con quello di due differenti specie di cinghiali attualmente esistenti. Il risultato raggiunto è stato possibile solo grazie all’impiego della tecnica del CT- scanning, una procedura più comunemente conosciuta come TAC e ampiamente usata in ambito medico. Grazie a questa tecnologia, i ricercatori sono stati in grado di acquisire una dettagliatissima “mappa” del cervello dell’animale senza la necessità di estrarre il fossile dal “cappotto” di travertino nel quale è incastonato, scongiurando così ogni rischio di danneggiamento. Ottenuta l’architettura dell’encefalo di Sus arvernensis, i paleontologi hanno voluto confrontarla con quella di due specie viventi che abitano però due rami distanti dell’albero evolutivo dei suidi: Babyrousa babyrussa, tipico del continente asiatico e Hylochoerus meinertzhageni attualmente presente nel continente africano. Quello che è emerso da questa comparazione è un insieme di inaspettate analogie fra Sus arverenensis e le due specie viventi, come ad esempio la conformazione allungata in senso antero-posteriore e dorsalmente piatta dell’encefalo.  Lo studio, perciò apre una finestra importante sui moti dei processi evolutivi che paiono essere estremamente dinamici e non banali, come dimostrato dall’“assonanza” fra specie così diverse fra loro, nello spazio come nel tempo. Quella di Collepardo si presenta non solo come una scoperta di rara bellezza, ma anche come un validissimo strumento scientifico da cui partire o dal quale prendere spunto per la corretta lettura del difficile linguaggio dell’evoluzione.

Immagine in evidenza: {https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/08912963.2021.1902999?journalCode=ghbi20}