Joshua Lederberg, l'uomo dei batteri

Joshua Lederberg, l’uomo dei batteri

Joshua Lederberg intuì per primo che anche i microrganismi hanno la capacità di scambiarsi informazioni genetiche, riuscendo a dimostrarlo all’età di soli 33 anni

Joshua Lederberg in un laboratorio dell’Università del Wisconsin, ottobre 1958

«Probabilmente sono nato scienziato», raccontava Joshua Lederberg in un’intervista del 1988. La sua ricerca, che riguardava i meccanismi di scambio genetico nei batteri, lo aveva portato trent’anni prima alla scoperta della coniugazione batterica, per cui si aggiudicò il Nobel.

Nato nel 1925 a Montclair, nel New Jersey, sviluppò fin da piccolo una passione per la scienza e, dopo la scuola superiore, entrò alla Columbia University con l’intenzione di studiare medicina. In quei luoghi il suo interesse si spostò verso la microbiologia e iniziò a occuparsi della genetica dei batteri.

All’età di ventun anni si trasferì a Yale per continuare i suoi studi. Aveva, infatti, sentito parlare della ricerca di Edward Tatum e George Beadle, genetisti che studiavano il collegamento tra le mutazioni, indotte tramite raggi X, e il metabolismo.

In quegli anni, i maggiori esponenti della comunità scientifica erano convinti che i batteri si riproducessero per clonazione, senza avere alcuno scambio sessuale. Lederberg, al contrario, sosteneva fossero in grado di scambiarsi informazioni genetiche tramite un processo che aveva chiamato coniugazione batterica. Tale intuizione rivoluzionava la genetica: se si fosse rivelata vera, avrebbe trasformato la ricerca, consentendo di studiare i meccanismi di trasmissione dei geni mediante l’utilizzo di microrganismi semplici, come i batteri.

I mutanti di Escherichia coli sui quali lavorava Tatum erano perfetti per gli esperimenti di Lederberg e, nell’arco di solo sei settimane, i due ricercatori riuscirono a raccogliere i risultati necessari per dimostrare lo scambio genetico nei batteri. Nel loro studio Tatum e Lederberg presero due differenti ceppi di E.coli, che erano in grado di sintetizzare proteine diverse, e li fecero crescere sullo stesso terreno. Dopo un po’ di tempo identificarono alcuni mutanti che riuscivano a sintetizzare le proteine di entrambi i ceppi. Doveva, quindi, essere avvenuta una ricombinazione genetica tra i due ceppi: in altre parole, i microrganismi erano in grado di ereditare la capacità di produrre determinate proteine, il che dimostrava che i batteri si scambiavano informazioni genetiche. La scoperta avvalorò anche la tesi di Tatum e Beadle, secondo cui a ogni gene corrispondeva un determinato enzima.

L’accademia svedese, comunque, esitò a lungo prima di accettare le teorie proposte dai tre ricercatori e solo una decina di anni dopo, nel 1958, gli conferì il Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia. Mentre era a Yale, Lenderberg si sposò con Esther Zimmer, anche lei microbiologa, con cui lavorò per il resto della sua vita. Insieme svilupparono una tecnica, la replica plating, che permise loro l’identificazione di ceppi antibiotico-resistenti, senza esporre i ceppi al farmaco, dimostrando che la resistenza è una mutazione genetica e non un adattamento. Inoltre, la tecnica rappresentava un modello sperimentale ideale e innovativo per gli studi genetici, grazie soprattutto alla sua semplicità e alla rapidità con cui si potevano far crescere i microrganismi.

Ma Lederberg non si dedicò a un solo campo di ricerca: la sua sete di conoscenza lo portò a interessarsi a temi come l’intelligenza artificiale e a collaborare con la NASA nei programmi sperimentali per la ricerca di vita su Marte. Inoltre, negli ultimi anni, aveva sviluppato l’idea di creare un sito web informativo per la National Library of Medicine utilizzando il materiale accumulato nella sua vita.

Morì nel 2008, due anni dopo la moglie Esther.