Nanomacchine da Nobel

Nanomacchine da Nobel

Dalle intuizioni di Feynman al Nobel a Sauvage, Stoddart e Feringa: così le nanomacchine stanno cambiando il volto della medicina. E non solo

di GRAZIA BATTIATO, VALERIO COSSENTINO e LORENZO TENUZZO

ATOMI come mattoncini lego. Era questa la visione che, sessanta anni fa, animava Richard Feynman, fisico, premio Nobel e straordinario divulgatore. In una lezione del 1959 dal titolo “C’è un sacco di spazio giù in fondo”, Feynman immaginava nuove tecniche di sintesi chimica per manipolare gli atomi che costituiscono la materia. L’obiettivo era costruire nanomacchine, dispositivi così piccoli da poter viaggiare nel nostro sistema circolatorio e curare un cancro a livello molecolare. Come fare? Agendo in modo ricorsivo, ovvero mettendo a punto macchine di dimensioni ridotte, con le quali fabbricarne di ancora più piccole e così via, fino al livello di molecole e atomi. Gli esempi, in natura, non mancano: proteine come la miosina, responsabile della contrazione dei muscoli, o la chinesina, che muove il carico all’interno di cellule lontano dal nucleo, o ancora la dineina, che genera il battito dei flagelli che i batteri usano per muoversi. Strutture biologiche che sono nanomacchine complesse, a volte costituite anche da seicento blocchi capaci di muoversi in maniera indipendente. E oggi, finalmente, le previsioni del fisico americano si sono, almeno in parte, avverate. Per avere il pieno controllo delle nanotecnologie, specialmente a livello di produzione industriale, serviranno ancora degli anni. Tuttavia, ci troviamo in quella che può essere definita l’alba delle nanomacchine.

Motori e ascensori molecolari, microscopi capaci di vedere i singoli atomi, nanocapsule per il trasporto di precisione dei farmaci, vere automobili molecolari che viaggiano su binari di dna. La costruzione di dispositivi a movimento controllato nel nanomondo, in cui la lunghezza di riferimento è il nanometro, la miliardesima parte del metro, è stata una linea di ricerca in costante sviluppo negli ultimi cinquant’anni. Due anni fa c’è stato il riconoscimento con il Nobel per la chimica assegnato a Jean-Pierre Sauvage, Fraser Stoddart e Bernard Feringa per aver posto le basi della nanomeccanica. Cioè? Uno dei principi costitutivi di una macchina è che deve avere parti mobili. Sauvage, alla fine degli anni ottanta, ha posto il primo tassello, anzi i primi ingranaggi. La sfida però era più complicata del previsto. A livello molecolare le forze agiscono in modo diverso rispetto al modo cui siamo abituati nella nostra quotidianità. Man mano che si scende giù in fondo, a livello molecolare, la gravità diventa sempre meno importante, mentre cresce il peso delle forze di Van der Waals (che dipendono dalla distribuzione della carica elettrica nelle molecole e da come le molecole sono orientate fra loro). Gli atomi invece sono legati da forti legami covalenti, in cui condividono gli elettroni.

Con un sistema ingegnoso e complicato, Sauvage è riuscito a chiudere due molecole a semicerchio sfruttando un atomo di rame. Il risultato sono due molecole circolari legate in modo meccanico, come le maglie di una catena, e quindi capaci di muoversi l’una rispetto all’altra. Nome di battesimo: catenani. La nuova tecnica di sintesi raggiungeva un’efficienza del 42%, un risultato che ha aperto la strada alla creazione di catene sempre più complesse. Tre anni dopo Sauvage riuscì, aggiungendo energia, a far muovere i suoi catenani, creando di fatto, una prima rudimentale macchina molecolare. Nel 1991 è stato Stoddart a dare il suo contributo, creando i rotaxani, anelli attraversati da un asse molecolare. Nel 1994 il gruppo di Stoddart era capace di muovere l’anello lungo l’asse di 0.7 nanometri: una specie di ascensore molecolare. Inoltre, Stoddart ha sintetizzato un muscolo molecolare in grado di piegare una sottilissima lamina d’oro. Il motore arrivò nel 1999, dall’Olanda, grazie alle ricerche di Bernard Feringa. L’idea era creare una molecola che ruotasse in un’unica direzione, generando così una spinta. Normalmente le molecole sono continuamente sottoposte all’agitazione termica e agli urti con le altre molecole. In pratica si muovono in modo casuale. Il moto browniano, spiegato rigorosamente da Einstein nel 1905, è il moto caotico che manifestano le particelle, dovuto all’ambiente turbolento in cui si trovano. Realizzare una molecola mobile che si muova sempre nella direzione voluta era tutt’altro che semplice. Il primo motore molecolare realizzato da Feringa ruotava di 180 gradi quando veniva esposto alla luce ultravioletta. Nel 2014, i motori di Feringa hanno mostrato di poter compiere dodici milioni di rotazioni al secondo e di riuscire a sollevare un cilindro di vetro diecimila volte più grande.

Facciamo un passo indietro: 1986. Gerd Binnig e Heinrich Rohrer, scienziati dei laboratori Ibm di Zurigo, vengono insigniti del premio Nobel per aver sviluppato il primo microscopio a effetto tunnel (Stm). Sfruttando una punta ultrasottile – idealmente composta da un solo atomo – e il cosiddetto effetto tunnel, un principio quantistico per cui una particella – in questo caso un elettrone – ha una certa probabilità di attraversare una barriera che nel mondo classico sarebbe insormontabile, è possibile vedere gli atomi che compongono una superficie. In pratica, è un microscopio che, tramite una scansione di superficie, ricostruisce la topografia di una superficie a livello atomico. Non finisce qui. L’Stm permette anche di manipolare gli atomi, proprio come immaginava Feynman. Avete mai visto il film più piccolo del mondo (certificato dal Guinness World Record)? È stato girato usando atomi di ossido di carbonio su una superficie di rame. È costituito da 242 fotogrammi, ed è utile per capire le possibilità che apre la manipolazione della materia a livello atomico per applicazioni come la memorizzazione dei dati. Infatti, sono necessari circa mille fotogrammi di questo film, messi uno accanto all’altro, per ottenere lo spessore di un capello. Il titolo? Un ragazzo e il suo atomo.

Nanoscopici e superprecisi: ecco i farmaci del futuro
Dalla meccanica delle automobili alle vetture su scala nanometrica per il trasporto di farmaci. Paolo Decuzzi racconta la sua medicina di precisione

Ho svolto la tesi di dottorato sul consumo di freni e frizioni delle autovetture, e ho studiato come migliorare la loro progettazione”. E oggi, a capo del Laboratorio di nanotecnologia per la medicina di precisione dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova (Iit), Paolo Decuzzi considera le sue nanoparticelle delle vere e proprie vetture, in grado di trasportare i farmaci nei tessuti malati in modo rapido e intelligente. Una rivoluzione in ambito oncologico. “La nanoparticella è come una navetta che in maniera più specifica raggiunge il tessuto malato, perché ha delle caratteristiche che gli permettono di riconoscerlo e di distinguerlo da quello sano”.

Le nanoparticelle vanno dritte al bersaglio, insomma. E qual’è la differenza con un chemioterapico convenzionale?
Quando somministro un farmaco convenzionale, se si è fortunati lo 0,01% della dose iniettata raggiunge il tessuto malato, cioè solo una molecola su 100.000. La maggior parte dei farmaci chemioterapici attualmente in uso sono molto efficaci, talmente efficaci che l’oncologo è spesso costretto a ridurre le dosi, per evitare l’uccisione di cellule sane, come le cellule epatiche o quelle del midollo osseo. La nanoparticella permette di raggiungere in maniera più efficace il tessuto malato, in maggiore quantità.

Quanto maggiore?
Le nanoparticelle già utilizzate in ambito clinico raggiungono percentuali di accumulo fra l’1 e il 5%. Rispetto al farmaco nudo e crudo hanno permesso di migliorare soprattutto gli effetti collaterali legati alla chemioterapia, che tutti purtroppo conosciamo. La nostra idea è quella di creare nanoparticelle in grado di portare al tessuto malato il 30% del farmaco che iniettiamo, per rimuovere completamente gli effetti collaterali. Negli studi preclinici siamo già intorno al 20%.

Come sono fatte queste nanoparticelle? C’è il rischio di tossicità per l’organismo?
I materiali usati sono biocompatibili e biodegradabili, dopo un certo tempo si disciolgono e danno prodotti che non creano problemi di tossicità e che sono tranquillamente eliminabili. Sono polimeri, alcuni già utilizzati negli impianti da una ventina di anni, altri sono addirittura naturali, come l’acido ialuronico che è naturalmente prodotto dal nostro organismo.

Cosa succederà in ambito oncologico nei prossimi dieci anni?
Nei prossimi dieci anni anche tumori medio killer diventeranno controllabili. Trasformeremo una malattia che uccide in una malattia cronica: la malattia c’è, ma questo non ti impedisce di vivere 20, 30 anni tranquillamente. Anche l’educazione alimentare e lo stile di vita avranno un impatto. La medicina diventerà sempre più “medicina di sistema”: guarderà non solo alla cura migliore, ma anche alla prevenzione più efficace.

Andiamo oltre. Come immagina la medicina del futuro?
Incentrata sullo sviluppo di sistemi in grado di fare diagnosi e terapia simultaneamente. Oggi noi abbiamo mal di testa, ci prendiamo una pillola e il mal di testa ci passa. In futuro alla prima avvisaglia di un malore complesso ci prenderemo una pillola che potrà curare tutto: un tumore, una malattia neurodegenerativa, una malattia cardiovascolare. Questo però è Hollywood.