Satoshi Ōmura

“From zero to hero”: la storia di Satoshi Ōmura

La vita di uno dei tre premi Nobel per la medicina del 2015, dall’infanzia nel Giappone rurale alla scoperta dei farmaci che stanno eradicando malattie mortali

Ichi-go Ichi-e: un incontro, un’opportunità. Questa la frase con cui si è concluso il discorso del chimico giapponese Satoshi Ōmura alla cerimonia dei Nobel del 2015. Un riconoscimento, la massima onorificenza per la medicina, ricevuto assieme allo zoologo irlandese naturalizzato americano William C. Campbell e condiviso con la dottoressa cinese Youyou Tu. Un motto che riassume perfettamente la vita del ricercatore, fatta di viaggi, collaborazioni con esperti internazionali e sforzi per combattere o addirittura eradicare malattie mortali.

Due foto di Ōmura negli anni ’50. Fonte: nobelprize.org

Lo spirito collaborativo dello scienziato affonda le radici nella sua infanzia. Ōmura nasce nel 1935 a Nirasaki, città nella prefettura di Yamanashi, ai tempi una zona quasi esclusivamente rurale. In questo contesto, al giovane Satoshi viene insegnato a lavorare per il benessere collettivo piuttosto che per quello personale: a impartirgli questa mentalità sono i suoi genitori – importante funzionario del villaggio suo padre, maestra elementare sua madre – e soprattutto sua nonna, con cui trascorre gran parte del tempo. Satoshi non è solo uno studente modello: nella sua adolescenza eccelle anche negli sport invernali, tanto da essere considerato una promessa di alto livello nello sci di fondo.

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Ōmura negli anni’60 mentre usa lo spettrometro a risonanza magnetica nucleare. Fonte: nobelprize.org

Nel 1954 Ōmura comincia a frequentare l’Università di Yamanashi, dove sviluppa il suo interesse per la chimica. Dopo aver conseguito la laurea triennale nel 1958, inizia a insegnare in un liceo. Qui rimane impressionato dai suoi studenti, operai che andavano alle lezioni dopo una giornata di duro lavoro e che frequentavano la scuola serale per poter migliorare le loro prospettive di vita con la scolarizzazione. Ispirato dalle loro storie, decide di iscriversi a quella che oggi è conosciuta come Università di Tsukuba. In questa fase della sua vita, i suoi giorni sono divisi in tre momenti: di mattina frequenta i corsi universitari, di sera insegna al liceo e la notte usa l’unico spettrometro a risonanza magnetica nucleare (uno strumento con cui si studiano le proprietà magnetiche degli atomi e la struttura chimica dei composti organici) presente in Giappone in quel periodo per le sue ricerche.

Nel 1963 ottiene l’agognata laurea magistrale, a cui seguono il ruolo di ricercatore associato all’Università di Yamanishi, l’assunzione da parte dellIstituto Kitasato nel 1965 e ben due dottorati (nel 1968 in scienze farmaceutiche all’Università di Tokio e nel 1970 in chimica a Tsukuba). Durante queste esperienze rimane affascinato dai microrganismi che successivamente segneranno la sua carriera. Difatti, dal 1963 Satoshi comincia a studiare come estrarre sostanze antibiotiche dagli esseri viventi microscopici e si specializza nel trovare molecole da usare a scopo chimico (come per esempio la cerulenina, utilizzata oggi nei laboratori per studiare la biosintesi degli acidi grassi) o a scopo medico. Nel 1971 gira gli Stati Uniti e il Canada (tenendo conferenze in entrambe le nazioni) e diventa il direttore dell’Istituto Kitasato, carica che ha ricoperto per trent’anni.


Ōmura e William C. Campbell a Stoccolma. Fonte: Wikimedia Commons

Da leader dell’ente di ricerca, Satoshi convince diverse aziende private a investire nella ricerca di antibiotici estratti da vari organismi. Diventano così di fondamentale importanza i suoi studi sui farmaci derivanti dalle sostanze prodotte dal batterio Streptomyces avermitilis; nel 1978 riesce a coltivare un ceppo di questo organismo dal quale William C. Campbell riesce a estrarre l’avermectina, un pesticida. In seguito, da essa il ricercatore giapponese produce una versione meno tossica per l’uomo, l’ivermectina, utilizzata per trattare i pazienti affetti da elmintiasi, ovvero infezioni causate da vermi parassiti; agisce paralizzando le larve, uccidendole, e impedisce agli adulti di riprodursi, bloccandone così il ciclo vitale.

L’ivermectina è principalmente utilizzata per combattere la cecità fluviale e le filariasi linfatiche; entrambe sono malattie causate dalle filarie (vermi cilindrici “parenti” degli ascaridi usualmente presenti negli animali domestici da sverminare) e sono tipiche dei paesi tropicali. Introdotta nel 1981, in pochi anni divenne un farmaco utilizzatissimo, tanto da essere inserito nella Lista delle Medicine Essenziali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Grazie ai suoi effetti, ci si aspetta che le filariasi linfatiche scompaiano entro il 2020 e la cecità fluviale entro il 2025. Queste patologie risultano già praticamente assenti da zone del mondo dove erano frequenti prima dell’introduzione di questo prodotto, come ad esempio in Sud America e in Giappone, la terra natia sia di Ōmura che dei batteri che producono questa sostanza.

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Ōmura nel 2003 in Ghana. Fonte: nobelprize.org

Nonostante l’età che avanza, Satoshi Ōmura continua a fare ricerca e a dirigere l’Istituto Kitasato, intervallando tutto ciò con partite a golf (si evince che la sua passione per gli sport non sia mai calata) e viaggi nei paesi dove le malattie trattate con l’ivermectina sono ancora presenti (in diverse nazioni africane, per esempio). Nel 1995 ha fondato la Yamanashi Academy of Sciences e tramite essa e i suoi membri continua ancora a svolgere attività divulgativa nelle scuole locali.