Afrorealista

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Lorenzo Fioramonti, economista, Professore ordinario di Economia politica presso l’Università di Pretoria in Sudafrica, politico e già Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ci racconta della sua esperienza nel continente africano. In particolare del Sudafrica, un paese dove la ricerca e l’innovazione corrono velocissime anche grazie ai numerosi finanziamenti statali e a modelli accademici di successo

Ci può parlare della sua esperienza come professore di economia politica in Sudafrica e delle differenze con l’università italiana?

Sono diventato Professore ordinario di Economia politica nel 2012 quando avevo 35 anni. Direi che questa è la prima grande differenza rispetto all’Italia dove è molto difficile raggiungere questa posizione così giovani. Un altro aspetto importante è la meritocrazia, il sistema universitario sudafricano funziona secondo le regole anglosassoni: il lavoro è offerto a chi è più bravo. Nel mio caso, non avevo nessun legame con il Paese, non avevo parenti o amici lì, avevo solo studiato la sua storia politica ed economica e avevo avuto qualche collaborazione lavorativa, eppure ho ottenuto il ruolo di Professore. In generale, è stata davvero una bellissima esperienza, perché è un Paese fenomenale dove ho passato vent’anni della mia vita, prima e dopo l’incarico.

Come ha vissuto il rapporto con gli studenti del Sudafrica?

Sono volenterosi, ma molto meno preparati dei nostri. Una differenza sostanziale è che hanno molte più risorse a disposizione. Per esempio, per me, era molto facile mandare i migliori studenti a studiare e perfezionarsi in America o in Inghilterra, perché le possibilità di finanziamenti e di borse di studio sono tante e permettono loro di frequentare università straniere senza dover pagare la retta. 

Il modello dei finanziamenti è quello americano?

Il modello dei finanziamenti è completamente americano, il che significa fondi di ricerca e partecipazione a bandi internazionali. Così ho potuto sostenere il centro di ricerca che ho creato da zero; l’università non paga nulla ma ti supporta nel progetto. Ad esempio, su questi finanziamenti che entrano, l’università si prende solo il 10%. Per fare un esempio pratico, se entra un finanziamento di un milione di euro, l’università ne tiene 100 mila e il resto sono per il progetto. In altri paesi questo non accade, le università solitamente si prendono molto di più, fino addirittura al 60% negli atenei inglesi. Questo costo fisso molto basso mi ha permesso di risparmiare molti soldi che ho potuto investire nel centro di ricerca.

Tra tutti i progetti che ha portato avanti nel centro di ricerca qual è quello che l’ha più entusiasmata?

Quando abbiamo attivato un sistema digitale di mappatura dello stato della Terra nel mondo chiamato Land Matrix. È il primo database internazionale sul suolo posseduto da stati o privati: una sorta di catasto globale. Oltre a definire la proprietà dei suoli raccoglie anche i dati sulle condizioni di queste terre: se sono più o meno degradate, se c’è attività di agricoltura e di che tipo. È un progetto molto importante soprattutto per i paesi in via di sviluppo dove negli ultimi decenni si è sviluppato il fenomeno del land grabbing ossia quando investitori comprano terre senza consultare la popolazione locale. Paesi come la Cina, la Corea, o paesi arabi sono andati in Africa e in America Latina a comprarsi grandi appezzamenti di terreno per produrre cibo con danni ecologici non indifferenti. Quindi è importante sapere chi possiede cosa e quali attività sono svolte. 

Un progetto questo che si integra con il concetto di One Health, giusto?

Assolutamente. Ci siamo occupati di tantissimi progetti con un focus One Health dove la salute dell’ambiente dell’uomo e degli animali sono integrati l’un con l’altro. Abbiamo lavorato a ricerche sull’uso dell’acqua e sulla sua contaminazione, sul benessere delle persone e sul legame tra lo stato di salute degli ecosistemi e la salute delle persone. 

Oggi in Africa ci sono molte opportunità di ricerca?  

Sicuramente l’Africa è un continente dove si fa ricerca. Non sempre però è fatta dagli africani, anzi, molto spesso viene portata avanti dagli altri. Il Sudafrica in questo è un po’ un’eccezione perché è un paese estremamente ricco rispetto al resto del continente e questo permette agli studiosi di avere tanti finanziamenti anche statali.

Lo Stato come supporta la ricerca?

In Sudafrica abbiamo un sistema molto serio di assegnazione dei finanziamenti. I ricercatori sono valutati annualmente e individualmente sulla base della loro performance accademica da esperti internazionali. In base a questa lo Stato dà più o meno fondi allo scienziato. Lo trovo un modello estremamente dinamico dove ogni accademico mantiene la propria autonomia, e lo preferisco al modello italiano in cui sono le persone interne al dipartimento a decidere. Ad esempio, poteva capitare che avessi un rating maggiore a un mio preside nonostante fosse più potente dal punto di vista amministrativo. Diciamo che un sistema di questo tipo, che rende autonomi, porta difficilmente al clientelismo. 

Secondo lei quando è giusto parlare di un›Africa unica e quando invece è giusto chiarire lo Stato o la realtà territoriale dal punto di vista economico politico?

Secondo me non è mai giusto parlare di Africa come una cosa sola perché è estremamente diversificata: sono 54 stati, con climi, tradizioni, popolazioni, culture e lingue completamente diverse. Stiamo parlando di persone che, se non fosse per il razzismo europeo, non avrebbero niente in comune. Il fatto di aver definito Africa come un paese rivela l’ignoranza europea. 

Qual è il suo ricordo più bello del Sudafrica?

Sicuramente la gentilezza e l’allegria delle persone. La voglia dei sudafricani di essere persone empatiche, dolci e amichevoli. Ecco, questa è la cosa che mi porto nel cuore, soprattutto oggi che vivo in Italia, un paese dove la gente è sempre nervosa e di cattivo umore e dove si vive una vita di costante tensione. 

Che lezioni abbiamo ricevuto dal Covid?

Che le nostre società affollate, inquinate e dove abbiamo eliminato Madre Natura e dove si tende a vivere rinchiusi tra casa e lavoro, sono fondamentalmente più vulnerabili alle patologie infettive. Invece, gli africani che vivono a distanza l’uno dall’altro, in contesti meno inquinati e che sono più giovani si sono rivelati essere meno vulnerabili, pur essendo maggiormente colpiti da malattie dovute al degrado degli ecosistemi o a zoonosi, tra cui la malaria.

Due visioni del continente africano, afro-pessimista o afro-ottimista, categorizzato due visioni diverse. Lei dove si colloca?

Mi definisco afro-realista, ossia sono consapevole dei punti di forza e di debolezza dei paesi africani. Sono convinto che avranno la possibilità di svilupparsi con successo ed equilibrio solo se la smetteranno di copiare l’Europa e l’America e di pensare che il modello di crescita sia solo quello che ha sfruttato la gente e Madre Natura. Ecco, se decideranno di andare nella direzione opposta in cui costruiranno benessere rafforzando gli ecosistemi, creando un sistema più equilibrato e un’economia meno inquinante saranno sicuramente un continente più vivibile e di successo. 

Come vede il Piano Mattei in questo contesto?

Ritengo sia positivo rispetto all’idea di un’Italia che dovrebbe guardare di più al continente africano di quanto abbia fatto. Secondo me abbiamo sbagliato a non rafforzare i nostri rapporti con i

paesi del Nord Africa in passato, pensando di poter essere europei e basta, abbiamo perso tantissime opportunità. 

Lorenzo Fioramonti, economista, Professore ordinario di Economia politica presso l’Università di Pretoria in Sudafrica, politico e già Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

Mattia La Torre, biologa e ricercatrice di tipo A presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma

Sofia Gaudioso, biologa e comunicatrice della scienza, Sapienza Università di Roma