Ci sono vite da capitano e vite che capitano

Ci sono vite da capitano e vite che capitano

Il punto di vista di Massimo Fusillo, Professore ordinario di Critica letteraria e Letterature comparate, sull’ultimo film di Matteo Garrone Io Capitano. Una storia tra realtà e finzione sul viaggio di due ragazzi dal Senegal all’Europa. 

Professore, cosa ci dice sull’estetica del film? 

Il film fa una scelta estetica molto radicale perché è totalmente dal punto di vista dei due ragazzi africani, quasi in presa diretta sul loro vissuto, e credo che questa sia anche la sua forza. La scelta è quella di immergere noi spettatori nell’emotività dei protagonisti, nella loro percezione della realtà, delle ansie, delle speranze e dei loro sogni. Una delle caratteristiche principali del cinema è proprio quello di creare un mondo alternativo facendo vivere un’esperienza immersiva e polisensoriale. È chiaro che qualsiasi opera d’arte ci introduce in un mondo alternativo, ma il cinema lo fa con una potenza icastica ed emotiva particolarmente forte che il regista ha sfruttato dall’inizio alla fine. Siamo nella mente di questi ragazzi: è come se vivessimo in prima persona questa esperienza, traumatica, che il film ci racconta con una straordinaria potenza estetica. Anche la scelta del linguaggio, facendo parlare i due ragazzi nella lingua wolof, ricade in questa immersività. 

Come vede questa scelta di mantenere la lingua originale? 

Credo che anche questo serva a farci entrare nel loro mondo e a dare un senso di presa diretta sul vissuto. Io personalmente non sono un amante del doppiaggio, anzi, trovo che sia una scelta spesso molto artificiosa quella di far recitare in lingue non originali. La scelta del regista è servita anche a farci capire il mondo di partenza.

E proprio in merito a questo che ne pensa del contesto che è stato creato?

Una buona parte del film è dedicata al mondo da cui i protagonisti provengono. È interessante e significativo che loro non siano profughi, non emigrino in seguito a guerre, o per grandi traumi. Sono semplicemente ragazzi che hanno sogni, anche ingenui, come quello di diventare famosi musicisti e di avere i bianchi che fanno la fila per l’autografo. Questo mondo ci viene presentato nella sua lingua, nei suoi suoni, nei suoi riti e nelle sue feste. È bellissima la scena della festa, c’è una ritualità e una potenza espressiva meravigliosa e ci fa vedere una realtà, che ha una sua bellezza che noi non conosciamo, attraverso un’immersione graduale, dolce, e totale. 

Cosa ci dice della scelta finale? 

Non mostrare lo sbarco l’ho trovato efficace perché sarebbe stato un altro film. Questo aspetto mi ha ricordato Nuovomondo di Emanuele Crialese, un film sull’emigrazione italiana. Anche lì, il film termina sugli italiani che dagli oblò vedono l’America, lo “stato della libertà”. Secondo me sono scelte che potenziano la compattezza del film. Trovo anche che ne enfatizzi il tono epico nel finale: salvare l’imbarcazione e arrivare è un’impresa difficilissima dentro cui veniamo coinvolti fino all’ultimo in tutte le difficoltà. Fino all’arrivo della frase commovente “Io capitano”, già titolo, che esalta l’impresa del ragazzo eroe che con difficoltà e incredulità riconosce di avercela fatta. E secondo me questo è un finale veramente di grande potenza emotiva che sarebbe stato dissipato se avessimo visto l’approdo, l’arrivo in Italia e tutto il resto. 

Rappresenta in qualche modo una situazione in cui tutti ci possiamo trovare? 

Sì, sono scelte paragonabili a quelle che ognuno di noi può aver fatto, ad esempio lasciando la propria città, perché tutti abbiamo il diritto di voler prendere altre strade e a cambiare luoghi. Per questo è stato importante non aver scelto immigrati che vengono da situazioni di guerra o di difficoltà.

Non sono mancate le critiche, lei come risponderebbe? 

Ho letto qualche critica, per esempio, riguardo all’episodio in cui loro lavorano, perché giudicato troppo ottimistico. Hanno criticato Garrone come se avesse edulcorato la situazione per cercare un pubblico più ampio. Secondo me queste sono critiche ideologiche che innanzitutto chiedono al film quello che non è: non è un documentario, non ci vuole raccontare l’esatta realtà, perché per questo abbiamo altri strumenti come l’informazione, i saggi, le inchieste. Il film racconta una storia con una componente fiabesca, una scelta di Garrone interessante che rientra nella sua poetica. Quindi non si può chiedere a un film con questi elementi fantastici di essere credibile, giusto e vero. Questo è un film di formazione interiore e gli elementi aggiunti servono a questo scopo. Sento anche dire che era un film necessario, e credo che sia un aggettivo alle volte abusato. Non credo che fosse necessario perché dire questo sarebbe dargli un peso politico che il film non vuole avere. Sicuramente, il tema è importantissimo e il film permette di farcelo vivere attraverso le armi espressive e ci scuote, anche se solo sullo schermo, con grande potenza emotiva e sensoriale.  Questa è la grandezza di Io capitano: più che la necessità etica, facciamo un’esperienza che altrimenti non potremmo fare. Ecco, basta che non lo si carichi di una missione etica che non ha. Invece il film risponde a una necessità estetica, espressiva ma anche umana. 

Molti hanno trovato uno stile diverso da ciò che siamo abituati a vedere in Italia. Io ha notato una sorta di leggerezza. Lei cosa ne pensa?

Ho avuto la sensazione che non fosse totalmente un film italiano. Un po’ per la lingua, un po’ per la fotografia, molto diversa da quella a cui siamo abituati qui in Italia dove c’è sempre una sorta di cupezza. Non so se sia vero che c’è questa componente un po’ paradossale di leggerezza perché, ovviamente, il film è tutt’altro che leggero e ci prende lo stomaco. Secondo me la componente di leggerezza è dovuta a due cose. La prima è legata alla giovinezza dei due protagonisti. C’è questa leggerezza adolescenziale, questo entusiasmo, questo brio e questo rapporto di amicizia fra di loro: la percezione di due adolescenti della vita. La seconda è legata al paesaggio africano che ha dei colori struggenti e che forse ha dato questa componente di leggerezza pittorica. Ricordiamo che Garrone è un caso di doppio talento, perché è anche pittore, sebbene ovviamente il talento di regista sia dominante. 

C’è questa leggerezza adolescenziale, questo entusiasmo, questo brio e questo rapporto di amicizia fra di loro: la percezione di due adolescenti della vita

Secondo lei il film può arrivare agli Oscar?

È sempre molto difficile dirlo perché l’Oscar ha delle motivazioni che non sempre riusciamo a cogliere. Tanti film che avremmo potuto pensare vincitori non lo sono stati e viceversa. Ma io glielo auguro. Credo che la potenza espressiva, l’estetica immersiva unita alla leggerezza e al fatto che la questione dell’immigrazione riguardi tutto il mondo – gli Stati Uniti, la guerra, noi esseri umani – potrebbe portarlo alla vittoria. Vedremo se piacerà al pubblico americano. 

Massimo Fusillo, professore ordinario di critica letteraria e letterature comparate 

Mattia La Torre, biologa e ricercatrice di tipo A presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma

Sofia Gaudioso, biologa e comunicatrice della scienza, Sapienza Università di Roma