Black dreaming

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Dal Rwanda all’Italia con il sogno di diventare medico. Stéphane Rwendeye ci racconta del suo impatto con il paese che l’ha accolto, in particolare della città dove vive e studia, Genova, e di come le sue aspettative siano cambiate quando si è messo in gioco in prima persona. Stéphane è anche, dopo esserne stato consigliere, il nuovo vicepresidente del Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane – CoNNGI, realtà associativa che gli ha fatto cambiare la sua idea di italianità. Con lui parliamo della storia del Rwanda, del senso dell’inclusività e del futuro dell’Africa

Chi è Stéphane? 

Sono un ragazzo ruandese di 27 anni iscritto all’ultimo anno di Medicina. Sono arrivato in Italia nel 2015, ormai sette anni e mezzo fa. Ho sempre voluto fare Medicina e sono riuscito a essere ammesso a Genova. Quando sono arrivato conoscevo già un po’ di italiano perché l’avevo studiato da solo. Vengo da un paese, il Rwanda, che ha vissuto un genocidio terribile.

Oggi com’è la situazione in Rwanda? 

È un paese che per via del genocidio ha una storia molto complessa, anche da gestire. Oggi la situazione è cambiata, noi ruandesi siamo molto uniti sia perché abbiamo avuto una buona governance sia perché l’abbiamo voluto noi come popolo. 

Il genocidio ha segnato il Rwanda e il popolo ruandese. Cosa vi portate da questo terribile evento?

Poiché il tema della guerra lo abbiamo vissuto in prima persona, oggi, noi ruandesi che viviamo nel mondo, cerchiamo di trasmettere la nostra esperienza e quello che abbiamo imparato dal genocidio a oggi. Credo che la nostra esperienza sia fondamentale soprattutto in un momento come questo dove vediamo paesi e popoli che combattono gli uni contro gli altri: Israele e Palestina, Russia e Ucraina. 

Una guerra tra persone dello stesso popolo, come è nata? 

Riassumendo dico che il Rwanda è stato colonizzato prima dalla Germania e poi dal Belgio ed è a causa loro che sono nati i problemi. Infatti, prima dell’arrivo dei belgi in Rwanda erano tutti ruandesi, non c’erano discriminazioni etniche anche se esistevano tre classi sociali: i Tutsi, gli Hutu e i Twa. I Tutsi erano i più ricchi ed erano principalmente allevatori, gli Hutu vivevano di agricoltura e, per la maggior parte, lavoravano nei campi dei Tutsi e, infine, i Twa o pigmei vivevano tranquillamente nella foresta secondo le loro usanze lontani da questioni amministrative e politiche. È stata la colonizzazione da parte dei belgi ad aver alimentato la differenza tra le tre classi a livello razziale, basata sull’aspetto fisico. Quando i belgi hanno inserito queste classi sociali come gruppi etnici sulla carta d’identità hanno aumentando ancora di più le discriminazioni tra loro. La realtà è che i ruandesi non sono mai stati tre gruppi etnici diversi, ma poiché le persone tendevano a fare matrimoni tra gente della stessa classe sociale avevano tratti fisici caratteristici. Così nasce la teoria razziale. Ma sottolineo che i ruandesi sono sempre stati uguali, parlavano la stessa lingua, avevano la stessa religione, erano e sono un unico popolo.

Perché hai scelto l’Italia?

Ho sempre voluto andare all’estero, scoprire le altre realtà nel mondo. Se devo essere sincero volevo andare in Canada, un paese molto famoso in Rwanda. Nella mia testa era il paese perfetto, sia perché si parlano due lingue, l’inglese e il francese, che si parlano anche in Rwanda e che avevo studiato, sia perché è un paese molto accogliente ed è fatto di persone che vengono da altre parti del mondo, e infine anche perché ci vivono alcuni miei parenti. Poi, ho incontrato una persona che si era laureata e lavorava in Italia e che mi ha parlato molto bene del paese, delle borse di studio e della possibilità di pagare le tasse universitarie in base al reddito. Questo suo racconto mi ha fatto cambiare idea, mi sembrava che l’Italia fosse un paese umano, e lo è. 

Come è stato il tuo inserimento in Italia? 

Dopo un mese dal mio arrivo sono stato accolto in una famiglia italiana perché avevo provato il test d’ingresso di Medicina a Pavia senza successo. Fortunatamente, avevo conosciuto una signora fantastica a Milano con quattro figli e quando ho avuto problemi di alloggio mi ha aiutato, accogliendomi a casa sua come un figlio. Questo incontro mi ha facilitato anche a Genova, dove ero stato ammesso al Corso di Laurea in Medicina, perché uno dei figli della signora studiava lì e quindi sono stato accolto dai suoi amici. Ovviamente, ho avuto alcune difficoltà perché nonostante parlassi abbastanza bene l’italiano, le materie erano comunque difficili. Però, la passione, la voglia d’imparare e l’impegno mi hanno fatto arrivare all’ultimo anno.  

Com’è stare nelle aule dell’Università di Genova?

Devo dire che a volte nelle aule siamo in troppi. Non entriamo tutti. Infatti, l’idea di abolire il test di medicina un po’ spaventa a livello logistico, soprattutto a Genova dove si fatica a trovare aule per 200 studenti. 

Che rapporto hai con i tuoi colleghi? 

Ho avuto fortuna, perché avevo con me una persona che considero un fratello – uno dei figli di quella famiglia che mi ha ospitato – che studiava Medicina, e grazie a lui e ai suoi amici ho conosciuto una ragazza che iniziava il primo anno di università con noi. Il problema iniziale è che quando questa ragazza non c’era mi ritrovavo da solo a causa della mia timidezza. Inoltre, pensavo che sarebbero stati gli altri a venire da me considerato che venivo da un altro paese, ma così non è stato. Quindi, invece di chiudermi, ho capito che ero io a dover fare il primo passo. Non è stato facile. Ad esempio, all’inizio non mi piacevano le battute che facevano sugli africani perché non capivo il sarcasmo e l’ironia dei miei coetanei, molto diversa dalla mia. Ma alla fine sono riuscito a superare anche questa barriera. 

Cosa consigli a un ragazzo che si trova in una realtà totalmente diversa?

Il mio consiglio a una persona che viene dall’estero è di non stupirsi se qualcuno non è accogliente con te, perché magari anche lui vive le tue stesse difficoltà. Quindi dico di non pretendere che venga qualcosa dagli altri, ma di mettersi in gioco. Io, nel momento in cui l’ho fatto, ho capito che la mia percezione era falsata, ho scoperto che molte persone volevano conoscermi ma erano timide come me. Avvicinandomi per primo ho iniziato a farmi veramente degli amici, con impegno ho imparato bene l’italiano e il modo con cui i miei coetanei si divertivano. 

Sei a conclusione del tuo percorso universitario. Dopo cosa vorresti fare?

Mi laureo a marzo in Medicina. Poi, vorrei specializzarmi in Anestesia e Rianimazione, perché è un campo che mi è piaciuto molto, in particolare la parte dei farmaci e della terapia del dolore, perché permette di essere d’aiuto in diversi reparti dell’ospedale e di lavorare in vari ambiti: in terapia intensiva, in sala operatoria, in privato per la terapia del dolore e terapia analgesica, in pronto soccorso. Inoltre, è una figura di cui c’è tanto bisogno in tutto il mondo: in Italia, ad esempio, ci sono molti posti scoperti. Certo, è un lavoro che richiede tanta responsabilità e tanto impegno, però qualcuno lo deve fare e io lo farò. 

Cosa rappresenta per te il CoNNGI – Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiani?

Per me è uno spazio per quei giovani che provengono da altri paesi, anche se sono nati e vivono in Italia, che permette loro di incontrare persone che pensano che in questo paese ci sia una nuova generazione, italiana, che intende costruire un futuro inclusivo, libero e meraviglioso per tutti. Vorrei sottolineare la parola inclusività, perché è quello che abbiamo di più importante: se vogliamo un mondo unito dobbiamo includerci a vicenda. 

Il tuo percorso in Italia sarebbe stato lo stesso se non ti fosse imbattuto in questa rete di associazioni? 

No. Il CoNNGI ha cambiato il modo in cui in cui vedevo l’Italia perché ho incontrato ragazzi italiani che avevano tratti diversi da come immaginavo: persone con origini diverse che erano nate o cresciute in Italia. Sono tutte persone che si sentono italiane, anche se dall’aspetto non lo sembrano. Questa cosa mi ha molto colpito ed è il motivo per cui mi sento italiano dopo soli sette anni che vivo qua e per cui mi impegno per un paese che mi ha migliorato. 

Sappiamo che ti vuoi ricandidare al prossimo consiglio direttivo del CoNNGI. Con quale ruolo? 

Mi sono candidato come vicepresidente, prima ero consigliere ma ora mi voglio impegnare di più perché questa realtà mi è molto a cuore: raggruppa tutto quello di cui la nuova generazione italiana, ma anche europea, ha bisogno. Quindi per me è da custodire e rafforzare. 

Si può parlare di un’unica Africa oppure no? 

Io ci credo in un’unica Africa e mi ritengo un’africanista. È difficile ma è possibile. Gli altri ci sono riusciti e ci riusciremo anche noi perché siamo forti e gli africani hanno studiato tanto. Siamo in tanti ad aver studiato fuori – in Europa, negli Stati Uniti, in Canada, in Asia – e credo che  dovremmo portare in Africa tutto quello che abbiamo imparato fuori e aiutarla ad unirsi, a proteggersi e a farsi rispettare. Un’unica Africa è possibile ma è necessario impegnarsi e dialogare per trovare un unico scopo.  

Stephane Rwendeye, studente in medicina e chirurgia all’Università degli studi di Genova e vicepresidente del Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane

Alessandro Penso, fotografo documentarista, vincitore World Press Photo, 2014

Mattia La Torre, biologa e ricercatrice di tipo A presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma

Sofia Gaudioso, biologa e comunicatrice della scienza, Sapienza Università di Roma