Racconti: giornalisti e fotografi di guerra

Racconti: giornalisti e fotografi di guerra

Il rapporto tra obiettività e fatti narrati è il principale problema del giornalismo di guerra. La prima vittima di ogni conflitto è sempre la verità

Oggi la comunità degli inviati di guerra è ridotta a poche persone, dipendenti delle testate più importanti, a cui si aggiungono i reporter. I giornalisti di guerra non sono solo corrispondenti impavidi e capaci di affrontare gli orrori delle ostilità nel mondo, sono testimoni che rischiano la vita in missioni in zone di conflitto, muniti di elmetto e giubbotto antiproiettile che non sempre porta la scritta “press”.

Il fotoreporter di guerra freelance: un mestiere che non s’improvvisa

Il fotoreporter di guerra è un reporter che racconta le situazioni di crisi attraverso la fotografia e i reportage che descrivono la realtà con una concretezza che non riesce a trovare spazio nelle narrazioni giornalistiche. 

La fotografia di guerra, nata nella seconda metà dell’800, informa e contemporaneamente influenza l’opinione pubblica; ha un forte impatto emotivo grazie alla comunicazione dei fatti che passano attraverso il soggettivismo dell’autore. “La fotografia è un po’ come una pistola, non è buona né cattiva di per sé, dipende dall’uso che se ne fa”, sostiene Alessandro Penso, fotoreporter freelance di fama internazionale. Quella del fotoreporter di guerra freelance è una figura professionale indipendente, che non lavora dunque per una particolare testata, prevista e regolata dalla L. 69/1963 sulla professione giornalistica. Rappresenta i nostri occhi e le nostre orecchie sul campo di battaglia. Utile, ma a suo rischio e pericolo. 

Buona regola per un fotoreporter di guerra, prima di ogni spostamento, è quella di fare attività Osint, Open Source Intelligence, e Socmint, Social Media Intelligence. È fondamentale reperire informazioni e dati, scambiati tramite i social, attraverso operazioni di debunking su fonti aperte, fonti potenzialmente accessibili a tutti come registri pubblici, atti giudiziari e database informativi. Esistono comunità Osint in grado di dare informazioni attendibili, geolocalizzazioni precise e mappe costantemente aggiornate online sui conflitti in corso nel mondo. Inoltre, andando spesso in luoghi che non hanno mai visitato e di cui non conoscono la lingua, i fotoreporter di guerra solitamente si affidano ad un fixer: un comune cittadino, poliziotto, militare o giornalista locale che conosce la lingua, gli usi e le tradizioni del luogo e li accompagna, facendo da guida, traduttore e condividendo contatti, indicazioni e storie. Infine, a garantire il lavoro dei fotoreporter di guerra troviamo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti, CPJ, un’organizzazione indipendente che promuove la libertà di stampa in tutto il mondo e difende il diritto dei giornalisti nel riportare le notizie in modo sicuro, senza paura di ritorsioni.

L’embedded e

il giornalismo incorporato

Il giornalista embedded, figura prevista dal regolamento del Dipartimento della difesa USA, diffuso nel 2003, nasce durante la Seconda guerra mondiale, si sviluppa durante la guerra in Vietnam e diventa una figura fondamentale durante la Guerra in Iraq. L’embedded descrive la guerra dal punto di vista del soldato. Riceve un addestramento specifico per stare in prima linea a fianco delle truppe, osserva i soldati in azione, condivide i rischi del fronte. Si aggrega alle forze armate di uno Stato, segue i consigli del team e cerca di non mettere in pericolo né se stesso né gli altri. Deve sottostare ad accordi che gli impongono l’obbligo di non rilasciare determinate informazioni: non potrà mai scrivere tutto ciò che vedrà. Le forze armate, che gli garantiscono la sicurezza, filtreranno le notizie. La sua unica fonte da poter sfruttare è quella degli apparati militari e dei Media Combat Team: squadre di militari con competenze di operatori foto-video, impiegate in campo, in esercitazioni e in eventi per documentare le attività delle forze armate. La maggior parte delle volte, l’embedded italiano rimane all’interno delle basi militari e realizza le riprese da una postazione creata appositamente per i giornalisti, selezionando i video girati dai Media Combat Team. Il più grande limite dell’embedded? Dover “abbandonare” le immagini più violente e sanguinose per garantire un giornalismo adatto alla TV. Il rischio? Rendere la guerra più accettabile.

Addio vecchie abitudini. Benvenuti nuovi equilibri

Stiamo vivendo un cambiamento epocale del giornalismo, che diventa sempre più logistica militare. Il combattimento digitale ridisegna la figura del giornalista. Le azioni militari vengono studiate con strategia e presentate pensando al loro effetto comunicativo. Il modo in cui verranno raccontati i fatti determinerà la percezione del conflitto. L’informazione si confonde e si combina con la cyber security. Da un lato c’è il giornalista che lavora in zone di guerra al seguito di un esercito, ne accetta la protezione e le limitazioni imposte alla propria libertà, non solo di movimento ma anche di espressione. Dall’altro ci sono i reporter e fotoreporter, che cercano di trasmettere ciò che la guerra produce a livello sociale e comunitario, umano ed emotivo. Le immagini, come sostiene Penso, sono un potentissimo veicolo di emozioni che creano empatia: un segno di riconoscimento, non sempre facile da raccontare. È tempo di aprire gli occhi. C’è sempre più bisogno, nel panorama della mediamorfosi della net–war, che coinvolge e trasforma i rapporti tra guerra e giornalismo, di arginare la possibilità che la verità, in guerra, venga sempre più ferita, uccisa e dimenticata.

Alice Luceri, studentessa del master “la scienza nella pratica giornalistica” presso il dipartimento di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma https://web.uniroma1.it/mastersgp/