Intercultura

Intercultura

con Gaia Peruzzi

di Sara Ludovici e Lucilla Nicastro

Il termine cultura, nel linguaggio sociologico, indica quell’insieme di norme, la maggior parte informali, che regolano il nostro vivere quotidiano e la nostra convivenza con gli altri. “Altri” che possono avere culture diverse e che caratterizzano gli ambienti in cui viviamo, facendoli divenire interculturali. Di norma non ci chiediamo come sono nate, se funzionano e se sono giuste le regole che ci hanno insegnato. Ma vivendo in contesti interculturali ci poniamo la domanda: come coesistono culture diverse? Di intercultura e della sua situazione in Italia ci ha parlato Gaia Peruzzi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi alla Sapienza.

Quanto ci influenzano le culture in cui nasciamo e in cui viviamo?

Molto più di quanto crediamo. Fin da quando nasciamo, siamo immersi in contesti in cui ci insegnano le regole per vivere che apprendiamo come fossero naturali. La famiglia, la scuola, la comunità in cui viviamo, le istituzioni che incontriamo, ci insegnano, per esempio, come si sta in compagnia, che c’è una gerarchia tra adulti e persone più giovani, che uomini e donne devono comportarsi in maniera diversa, anzi, ci dicono i maschi e le femmine, facendo riferimento al genere. Quindi, è vero che gli esseri umani sono fatti anche di caratteristiche individuali, di propensioni, di gusti, ma queste vengono plasmate dalle regole informali che ci vengono insegnate. Diamo queste regole per normali e non ci rendiamo conto che dipendono dal contesto in cui siamo cresciuti e vissuti. Le generazioni del passato non si ponevano neanche la questione perché vivevano in ambienti culturalmente stabili. Invece, negli ambienti in cui viviamo ora, che sono appunto interculturali, incontriamo, nella stessa traiettoria di vita, magari anche nella stessa giornata, stili di vita, abitudini e culture diverse. Adesso siamo portati a riflettere su quanto quello che facciamo dipenda dalla nostra propensione individuale o c’è stato insegnato, ma, tendenzialmente, sottovalutiamo quanto ci influenzano le regole che ci hanno insegnato.

Vivendo accanto a culture diverse impariamo stili di vita e meccanismi, e troviamo strade di mediazione.

Nel saggio “Educare alla diversità. Le istituzioni italiane e la sfida dell’interculturalità” si indaga sullo stato dell’educazione all’interculturalità nel nostro paese. Come si educa un paese all’interculturalità?

Si educa con la formazione, perché se siamo portati a dare le nostre regole, i nostri riferimenti culturali come attuali, scontati, giusti, normali, le culture altre ci pongono degli interrogativi e l’unico modo per affrontare in maniera adeguata la questione è il pensiero critico: lo studio e la formazione. Ce ne è un altro, ma è più lento: la pratica, l’incontro e la convivenza quotidiana. Vivendo accanto a culture diverse impariamo stili di vita e meccanismi, e troviamo strade di mediazione. L’esperienza quotidiana è importante: alcune cose si possono apprendere con la pratica, ma basta un caso storto, una persona di un altro paese che mi ruba la borsetta, e la pratica dell’esperienza si infrange. Che cos’è la scuola se non un apprendimento accelerato rispetto a quello che ci è consentito con l’esperienza? La formazione è un grande acceleratore di spirito critico e consapevolezza. È lo strumento più potente che abbiamo per educare all’intercultura. Le istituzioni che rappresentano uno Stato, quindi la scuola e l’università, hanno la responsabilità di produrre e di stimolare un orientamento critico che faccia riflettere e che sia orientato a certi valori: inclusione, giustizia, solidarietà. Anche i media hanno un ruolo importantissimo di educazione perché sono la narrazione del mondo. Soprattutto i media di informazione, quelli giornalistici, che hanno il ruolo di raccontare l’evoluzione sociale.

Le storie del cinema e del teatro sono testimonianze interculturali. Sarebbero da utilizzare molto di più nelle scuole: sono narrazioni più lunghe, più profonde, nascono per il confronto pubblico, l’intercultura non si insegna senza confronto.

E come si narrano le diversità culturali attraverso i media?

I media hanno, soprattutto, la responsabilità di portare alla luce alcune emergenze. La prima emergenza è togliere dall’invisibilità certe categorie, quindi nominarle e farle esistere. Oggi se si guarda alle culture di genere, la questione delle donne non è risolta ma è emersa, la questione degli omosessuali presenta gravi criticità, ma è emersa, non è emersa la questione trans, i trans non si vedono e se ne parla poco. Togliere dall’invisibilità è la prima forma di accettazione dell’interculturalità. Altra emergenza è il nome, nominare nella maniera adeguata. Viviamo una fase di cambiamento culturale, di rivoluzione culturale e il linguaggio è sintomo di questo cambiamento, a volte è indietro rispetto all’evoluzione di un paese, a volte è avanti. L’uso del termine femminicidio delinea una sensibilità che forse a livello sociale ancora non è matura. Mentre, aver spostato l’accento da immigrato a migrante per indicare una persona che nella sua vita ha l’esperienza migratoria come tratto caratterizzante, restituisce alla persona una pienezza senza condizionarla con il mio punto di vista. Sui termini più vecchi è chiaro che c’è una certa condivisione del fatto che debbano essere superati, ma il linguaggio è in continua evoluzione, e sui termini più nuovi le posizioni possono essere differenti. Sono passaggi lessicali delicati, che non si possono imporre. Poi, si dovrebbe iniziare a realizzare narrazioni che restituiscano una visione più complessa: per esempio, i migranti non sono sempre e solo dei poveretti, non si tratta solo di sbarchi come si vede in televisione e di donne con il velo sui giornali di cronaca. Vediamo mai le seconde generazioni sui giornali? No, per esempio questa è un’altra categoria soggetta alla scarsa visibilità. Se viviamo in un paese multiculturale dovremmo dare la parola anche alle seconde generazioni di migranti, così come se vogliamo una cultura di generi differenti, le donne e non solo devono arrivare a sedersi in alcuni luoghi. Nella rappresentazione delle identità va fatta attenzione alle vulnerabilità di queste categorie, perché il pensiero che discrimina o che emargina si appella sempre a una caratteristica fisica. Gli stereotipi sono molto duri da rompere proprio perché usano come pretesto una caratteristica fisica che concepiamo come innata e scontata che non si può modificare e quindi cambiare pensiero su questo è molto difficile. Fortunatamente, in Italia esistono dei media che sono nati proprio con il proposito dell’inclusione. Redattore sociale, Vita, Parlare Civile sono associazioni e media vocati all’interculturalità. Ci sono i social, ma facendo attenzione, perché manca il distacco e la narrazione è breve. Il cinema e il teatro sono tra i luoghi più forti di produzione e di creazioni di interculturalità. È difficile vedere un film la cui morale sia produrre esclusione. Le storie del cinema e del teatro sono testimonianze interculturali. Sarebbero da utilizzare molto di più nelle scuole: sono narrazioni più lunghe, più profonde, nascono per il confronto pubblico, l’intercultura non si insegna senza confronto.

Qual è la situazione in Italia riguardo all’inclusione culturale? Quali sono le criticità e le azioni che si possono attuare?

L’Italia si trova in un punto geografico strategico ed è da sempre un crocevia di culture diverse. Bisogna sottolineare un aspetto che difficilmente viene evidenziato: le migrazioni che hanno interessato il nostro paese sono diverse da quelle in altri paesi. Francia e Germania sono stati interessati da grandi flussi migratori già 20-30 anni prima di noi, ma questi flussi provenivano dalle loro stesse aree culturali e quindi caratterizzati dalla prevalenza di individui con la stessa nazionalità. In Italia i flussi migratori sono arrivati più tardi, ma sono da sempre eterogenei: si parla di 20-30 nazionalità contemporaneamente, un vero e proprio laboratorio culturale. Anche altri dati ce lo dicono. Ad esempio, abbiamo avuto fenomeni di radicalizzazione minori di quelli che si sono verificati in Francia. L’Italia è quindi un laboratorio sociale che sa fare intercultura e ha acquisito competenze in un largo lasso temporale. Il problema serio è che istituzionalmente siamo indietro. Per esempio, mentre l’inclusione delle diversità nelle scuole è iniziata già da qualche anno, l’inclusione delle diversità si vede maggiormente nel mondo del lavoro, anche se le piccole e medie imprese poco si prestano rispetto ad altri contesti. Un altro problema è che in Italia le leggi sulla cittadinanza sono molto restrittive, rendendo difficile l’acquisizione della cittadinanza italiana ai ragazzi di seconda generazione. Quindi, geograficamente siamo stati avvantaggiati rispetto ad altre nazioni nella propensione all’interculturalità, ma di contro abbiamo un ritardo sul piano burocratico e nella scuola. Bisognerebbe sviluppare il concetto di interculturalità prima di tutto nella scuola e poi formare tutti gli altri ambiti, anche nella pubblica amministrazione. La formazione è necessaria a tutti i livelli, ma soprattutto per gli adulti e soprattutto per quelle categorie professionali che si rendono disponibili.

Che cos’è lo studio se non un viaggio in altri mondi, che diversamente non si potrebbero conoscere? La parte entusiasmante è rendere concreto quello che si è appreso a scuola. Viaggiando e vedendo quello che si è appreso solo teoricamente.

La guerra in Ucraina ha riportato in Europa una situazione che non si pensava possibile. La sentiamo più vicina e sentiamo di dover aiutare la popolazione ucraina. Tuttavia, alle frontiere si verificano fenomeni di razzismo che passano in secondo piano. Perché? Può la conoscenza interculturale permetterci di superare la frontiera della diversità, accogliendo l’individuo senza guardare alla provenienza geografica?

Questa domanda pone l’attenzione su un aspetto importante ed è la bandiera di tutti coloro che vogliono la pace a tutti i costi. Accogliamo i profughi dell’Ucraina e chiudiamo la porta in faccia ad altri. C’è un libro bellissimo di Maurizio Ambrosini dal titolo L’invasione immaginaria che spiega il fenomeno migratorio. Maurizio Ambrosini, forse il più grande studioso in questo campo, dice: “Ci preoccupiamo delle frontiere del Mediterraneo, li lasciamo morire in mare, ma i canali da cui entrano gli immigrati in Italia non sono quelli. La maggior parte provengono dall’est Europa”. Quindi la comunicazione che abbiamo è deformata. La conclusione è che, se in Italia non apriamo le frontiere e regolarizziamo le entrate, continueremo ad avere ingresso di clandestini o persone che non hanno i documenti in regola. Una politica lungimirante dovrebbe costruire canali d’entrata. Il fatto che, a popolazioni diverse si riservino accoglienze diverse, è una caratteristica nostra e i media hanno un ruolo importante. Citando Mediapolis,testo di Roger Silverstone, “gli altri non sono altri allo stesso modo”. Molto dipende dalle costruzioni narrative. Ad esempio, gli Stati Uniti fisicamente sono lontanissimi, ma in realtà li abbiamo in casa. Sono i media che costruiscono una percezione di vicinanza o lontananza, che non corrisponde a quella fisica. Il colore della pelle fa moltissimo. L’unico modo per lasciarsi alle spalle tutto questo è studiare e guardare le cose in maniera critica. Che cos’è lo studio se non un viaggio in altri mondi, che diversamente non si potrebbero conoscere? La parte entusiasmante è rendere concreto quello che si è appreso a scuola. Viaggiando e vedendo quello che si è appreso solo teoricamente. La cosa giusta, quindi, è poter vivere entrambe le esperienze e l’esperienza giusta è quella mediata.

Esistono realtà mondiali da prendere come modelli di interculturalità?

L’Italia è per certi aspetti un laboratorio interculturale, ma in realtà non esistono condizioni assolute. Gli Stati Uniti sono un grande laboratorio interculturale, ma c’è il rovescio della medaglia: sono talmente interculturali che le popolazioni che sono arrivate hanno schiacciato quelle che c’erano prima. In genere, un grande laboratorio sono le città, in quanto luoghi di convivenza. Un altro grande laboratorio sono le coppie miste, la convivenza realizzata in casa che diventa pubblica con un matrimonio. Poi c’è l’importanza delle leggi: è necessario concedere alla cittadinanza leggi che permettano l’evolversi della società, cioè è importante che le leggi siano al passo con i tempi.

Gaia Peruzzi, sociologa e Professoressa di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza Università di Roma

Sara Ludovici e Lucilla Nicastro, studentesse del Master La Scienza nella Pratica Giornalistica della Sapienza Università di Roma