restaurare gli ecosistemi marini

Mare dentro

Mariachiara Chiantore, Professoressa all’Università degli Studi di Genova, ci spiega che cosa significa restaurare la biodiversità e perché è così importante agire in questo momento. Ma anche le differenze tra il recupero degli ecosistemi terrestri e marini e del motivo per cui questi ultimi ricevono ancora oggi gli sforzi minori

Già da alcuni anni, sia le Nazioni Unite che l’Unione Europea si sono rese conto che la sola conservazione degli ecosistemi marini e terrestri non è più sufficiente per consentire il recupero della biodiversità, delle funzioni e dei servizi che questa garantisce, laddove qualche tipo di disturbo, naturale o antropico, ne abbia causato un’erosione e una perdita di funzioni.

La Terra è assolutamente capace di recuperare, ma con tempi e modalità che non sono sempre in sintonia con le necessità della popolazione umana

La Terra, in effetti, è assolutamente capace di recuperare, ma con tempi e modalità che non sono sempre in sintonia con le necessità della popolazione umana, il cui benessere è totalmente dipendente da quello del pianeta. Al tempo stesso, la popolazione mondiale cresce numericamente e in termini di esigenze con una velocità a cui la Natura fatica a stare al passo.

In questo contesto sono state lanciate varie direttive con l’ambizioso obiettivo di ripristinare la biodiversità ed i suoi servizi ecosistemici, tra cui la EU Biodiversity Strategy to 2030, la UN Decade on Ecosystem Restoration e, proprio da poche settimane, la Presidenza del Consiglio e i rappresentanti del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sulla Nature Restoration Law. La proposta mira a mettere in atto misure per ripristinare almeno il 20% delle aree terrestri e marine dell’UE entro il 2030 e tutti gli ecosistemi che necessitano di ripristino entro il 2050. Target decisamente ambiziosi, ma mai come in questo momento l’Unione europea ed anche l’Italia stanno investendo per conservare e restaurare la biodiversità, specie all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sia all’interno del National Biodiversity Future Center (NBFC), uno dei cinque centri nazionali finanziati attraverso il Ministero dell’Università e della Ricerca, sia attraverso il progetto MER (Marine Ecosystem Restoration), che vede ISPRA come soggetto attuatore.

L’Ue e l’Italia stanno investendo per conservare e restaurare la biodiversità, specie all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sia all’interno del National Biodiversity Future Center sia attraverso il progetto MER

Ma cosa significa restaurare la biodiversità? Questa la definizione data dalla Society for Ecological Restoration: “Il processo di assistenza al recupero e alla gestione dell’integrità ecologica. L’integrità ecologicaQuesta  comprende una gamma critica di variabilità della biodiversità, dei processi e delle strutture ecologiche, del contesto regionale e storico e delle pratiche di coltura sostenibili”.  Due sono gli aspetti fondamentali in questa definizione: 1) si tratta di assistere un processo naturale, non di intervenire modificando traiettorie naturali e 2) l’attività di restauro si colloca all’interno di una visione del paesaggio globale, valutando la connessione ecologica al suo interno e tenendo conto del contesto sociale, economico e culturale.

In tutto questo è evidente il divario tra l’ambiente terrestre e quello marino. Da tempi immemorabili l’uomo sulla terra ferma ha modificato il paesaggio, molto prima che in mare, spesso causando danni e modificazioni di enorme entità (basti pensare alla deforestazione o all’introduzione volontaria di specie alloctone). Tuttavia, con approcci non eccessivamente dissimili, ha imparato a rinaturalizzare ambienti degradati: ad esempio la riforestazione è una pratica consolidata, che si configura però come un vero restauro ecologico quando condotta utilizzando specie locali e rispettando i processi di successione ecologica. Altra differenza rilevante nell’intervento di restauro sulla terra ferma sta nella minore connessione tra le tessere del paesaggio che fa sì che, talvolta, il degrado possa ritenersi confinato realmente a porzioni limitate dello spazio dove quindi si può intervenire attivamente. Questa minore connettività comporta però una minore possibilità di scambio tra le tessere e quindi di colonizzazione da parte delle specie: è necessario quindi considerare attentamente l’intervento all’interno del paesaggio, valorizzando o creando corridoi ecologici, ovvero “autostrade” che consentano alle specie di passare attraverso le diverse tessere.

In mare questa connessione è infinitamente maggiore, tanto che i sistemi marini sono considerati tradizionalmente sistemi aperti: da un lato questo consente una molto maggiore capacità di scambio e di passaggio delle specie ma aumenta il grado di interconnessione tra i diversi ecosistemi. Questo da un lato rende più difficile definire dei limiti alle zone impattate (specie se si parla di degrado legato al rilascio nell’ambiente di sostanze inquinanti) ma fa sì che le ricadute ecologiche di un intervento di restauro riverberino anche sugli ecosistemi adiacenti, in misura forse maggiore che a terra. Ad esempio, il recupero di una prateria di Posidonia oceanica, la pianta marina (fanerogama) che caratterizza (e che dovrebbe contornare quasi interamente) le nostre coste, specie sabbiose, ha effetti a cascata sul ripristino della biodiversità associata, sulla produzione di ossigeno, sul consumo di anidride carbonica, sul supporto alla rete trofica, ma esercita anche un rilevante effetto di protezione della costa (e quindi degli ecosistemi più superficiali), un rilevante export di materiale organico, sia verso i fondali più superficiali che più profondi e rappresenta un sito di nidificazione di specie molto mobili (invertebrati e pesci) il cui ruolo ecologico non è solo strettamente connesso al Posidonieto.

Il restauro ecologico marino è ancora nella sua infanzia. Globalmente, il 5% degli sforzi di restauro ecologico sono realizzati in ambienti marini e di estuario rispetto al totale delle attività realizzate tra mare e terra

Il restauro ecologico marino si trova ancora attualmente nella sua infanzia. Un lavoro del 2015 di BenDor et al. (Estimating the Size and Impact of the Ecological Restoration Economy. PLoS ONE 10(6): e0128339) riporta un valore globale del 5% degli sforzi di restauro ecologico realizzati in ambienti marini e di estuario rispetto al totale delle attività realizzate tra mare e terra. Tra questi, naturalmente, lo sforzo maggiore è ricaduto e tuttora ricade su quegli ecosistemi che sono più vicini alla terra ferma ma anche che possono essere restaurati con approcci più “simili” a quelli impiegati in ambiente terrestre: pertanto ambienti di transizione, zone salmastre, mangrovieti, praterie di fanerogame. Altro ecosistema che sta ricevendo tanta attenzione è quello delle barriere coralline, sia in ragione della sua forte iconicità sia per la relativa semplicità di realizzazione. 

Il restauro deve assolutamente essere una pratica sostenibile: deve utilizzare tecniche e materiali sostenibili e non deve danneggiare i siti donatori. Ad esempio, non è sostenibile il prelievo di interi organismi (solitari o coloniali che siano) da un sito donatore per essere impiantati nel sito ricevente

La maggiore fattibilità degli interventi nei sistemi di cui sopra sta in larga misura nelle tecniche utilizzate e nella disponibilità di materiale da utilizzare per gli impianti. E qui entra in gioco la sostenibilità. Il restauro deve assolutamente essere una pratica sostenibile: questo significa che deve utilizzare tecniche e materiali sostenibili (a basso impatto ecologico) ma anche, e soprattutto, non danneggiare i siti donatori. Non è certamente sostenibile il trapianto, ovvero il prelievo di interi organismi (solitari o coloniali che siano) da un sito donatore per essere impiantati nel sito ricevente. Non solo i tassi di sopravvivenza sono spesso molto modesti, ma soprattutto si rischia di intaccare la ricchezza del sito donatore. Discorso diverso quando si può operare utilizzando frammenti di organismi coloniali (come si fa in larga misura coi coralli, per esempio), spesso staccatisi per cause naturali e che possono essere impiantati altrove. Simile approccio si può utilizzare con le fanerogame, dove possono essere impiantati, con vari approcci, talee o fasci di foglie staccatisi per il moto ondoso e, in caso, anche recentemente spiaggiati.    

L’approccio che ritengo più sostenibile è riprodurre per restaurare: si possono prelevare pochi individui di organismi animali e farli riprodurre in cattività, amplificando la numerosità degli individui da impiantare e minimizzando il numero di individui prelevati

Approccio ancora più virtuoso è quello del piantare i semi (fatti eventualmente prima germinare e crescere in ambiente controllato), se si tratta di fanerogame, in modo non diverso da quanto si fa in ambiente terrestre. E questa strategia ci porta a quello che ritengo essere l’approccio più sostenibile e che può diventare anche una opportunità sociale ed economica: riprodurre per restaurare. In sostanza, si possono prelevare solo pochi individui di organismi animali e farli riprodurre in cattività, amplificando enormemente la numerosità degli individui da impiantare, minimizzando il numero di individui prelevati. Oppure, come nel caso delle macroalghe, si possono prelevare solo frammenti degli individui, contenenti le porzioni fertili, senza espiantarli: a questo punto si procede ad una “coltivazione” in laboratorio, come coi semi delle fanerogame di cui ho parlato sopra, fino al momento in cui i giovanili sono pronti ad essere posizionati in mare.

Ecco, quindi, la visione di una nuova professione, i restauratori del mare: questo approccio al restauro marino può diventare un’opportunità economica e sociale, nella creazione di opportunità lavorative e nella creazione e conversione di imprese. Una filiera che va dalla riproduzione alla collocazione in mare e al monitoraggio, con il coinvolgimento di tutti i portatori di interesse, non ultimi i cittadini che possono contribuire in varie fasi. Una nuova e virtuosa forma di acquacoltura, che si può affiancare a quella tradizionale, con notevoli benefici ambientali.

Non poche sono certamente le sfide, in primis biologiche (la conoscenza della specie, di come si riproducono, di definire protocolli efficaci…) e tecnologiche, ma anche autorizzative e legate alla consapevolezza sociale, ed infine, non ultime, legate ai rapidi cambiamenti e alle imprevedibilità che il cambiamento globale sta imponendo. La congiuntura temporale, però, ci impone lo sforzo e ci dà delle opportunità: mai come adesso possiamo e dobbiamo agire.

La congiuntura temporale, però, ci impone lo sforzo e ci dà delle opportunità: mai come adesso possiamo e dobbiamo agire

Mariachiara Chiantore, ecologa e Professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Scienze della terraTerra, dell’ambiente dell’Ambiente e della vita Vita dell’Università degli Studi di Genova