Nobel da Altrove

Denunciare l’imperialismo con la lingua degli imperi. La scrittura e l’opera del vincitore del premio Nobel per la Letteratura Abdulrazak Gurnah attraverso l’analisi di Umberto Rossi

Invertire i dogmi narrativi, uomini e donne con il compito di trasmettere le loro storie. Abdulrazak Gurnah, attraverso i suoi personaggi ci ricorda che il “fato del profugo“ ci appartiene da lungo tempo. La lingua dei colonizzatori che diventa quella dei colonizzati, lingue e linguaggi che avvicinano o allontanano i personaggi, il lettore, il conquistatore e il conquistato. La storia del continente nero segnata dal colonialismo raccontata dal premio Nobel 2021 per la Letteratura e analizzata da Umberto Rossi.

Per attraversare l’opera dello scrittore anglo-tanzaniano Abdulrazak Gurnah il miglior punto di partenza è la motivazione del Nobel che gli è stato assegnato: “per la sua penetrazione compassionevole e senza compromessi degli effetti del colonialismo e del fato del profugo nel golfo tra le culture e i continenti“. Questi due macroeventi, la colonizzazione (non solo europea) dell’Africa e la diaspora degli africani sono i due fuochi attorno ai quali orbitano tutti e dieci i romanzi dello scrittore. Nato in Tanzania quando ancora non esisteva la nazione (costituita nel 1964 dalla fusione di Tanganica e Zanzibar), e residente dall’età di diciotto anni nel Regno Unito (dove vive attualmente). Colonizzazione/decolonizzazione e migrazione sono intrinsecamente connessi, perché è dai mali della colonizzazione e dal fallimento della decolonizzazione che scaturiscono le ondate migratorie che hanno raggiunto anche il nostro paese. Anche per questo leggere Gurnah sarebbe istruttivo proprio per noi italiani, che ostinandoci a vedere noi stessi come “brava gente” e avendo rimosso i nostri misfatti coloniali, e metonimicamente l’intero continente nero, abbiamo una conoscenza piuttosto limitata e sfocata di processi alquanto complessi e di lunga durata. Proprio il romanzo recentemente ripubblicato dalla Nave di Teseo, “Sulla riva del mare” (2001), lega strettamente la decolonizzazione e l’emigrazione, perché i due personaggi principali, l’anziano Shaaban Mahmud, e il quarantenne Latif Mahmud, sono entrambi emigrati dalla Tanzania al Regno Unito, anche se per ragioni assai diverse, pur se entrambe connesse alle vicissitudini della nazione africana dopo l’indipendenza. Latif è stato inviato a studiare nella Germania Est nel periodo in cui la Tanzania s’era avvicinata all’URSS, salvo poi fuggire da quel paese per recarsi in Inghilterra, e iniziare una carriera di letterato e soprattutto poeta. Quanto all’uomo che si presenta come Shaaban Mahmud, si verrà pian piano a scoprire che è fuggito dalla Tanzania per salvarsi dalla persecuzione di cui è stato fatto oggetto dai vari regimi autoritari se non dittatoriali che hanno dominato il paese dalla sua nascita. Un’aggrovigliata storia famigliare lega in realtà i due personaggi, una storia pazientemente sbrogliata dal racconto di Shaaban; e come spesso accade nella narrativa di Gurnah, viene invertito il dogma della scrittura da bestseller imperante nella nostra editoria, e cioè “show, don’t tell” – in questi romanzi gli accadimenti vengono spesso raccontati dai vari personaggi ex post facto, e giocano un importantissimo ruolo uomini e donne che hanno una storia da trasmettere, anche con l’inevitabile piega soggettiva che ogni narratore imprime sul suo racconto – come l’impronta della mano del vasaio su una terracotta, nelle parole di Walter Benjamin. Certamente qui entra nella scrittura di Gurnah la tradizione orale africana, come in altri narratori del continente (un nome tra i tanti: Ahmadou Kouruma, specie in “Aspettando il voto delle bestie feroci”); però l’autore di “Sulla riva del mare” non è affatto un nostalgico del passato premoderno del suo paese, perché sia in “Paradiso” (1994) che nel suo ultimissimo romanzo, “Afterlives” (2020) si fa capire che anche prima dell’arrivo dei tedeschi nell’Africa sudorientale queste terre erano sotto una dominazione straniera, quella dei sultani dell’Oman, che garantiva l’egemonia culturale ed economica degli arabi. E comunque in “Paradiso” la figura del capo tribù Chatu è ben lontana da qualsiasi idealizzazione idilliaca di un passato ancestrale. Gurnah è sempre attento al versante economico dei rapporti tra i singoli e tra i gruppi sociali, anche all’interno della sfera familiare, come dimostra la storia di Yusuf, il tredicenne protagonista di “Paradiso”, ceduto dal padre a un mercante arabo per garantire i debiti contratti con quest’ultimo. In ogni caso, se da un lato la scrittura di questi romanzi assume caratteristiche riconducibili all’oralità, quindi al passato ancora vivo delle culture africane, dall’altro è la scrittura stessa ad essere tematizzata in queste narrazioni, e non solo per la serie di citazioni letterarie che spuntano dappertutto, o per i personaggi che amano romanzi e poesie, come l’inglese Frederick in “Il disertore” (2005), o l’ufficiale tedesco in “Afterlives”; non solo per la pervasiva presenza del Corano, in queste terre africane dove l’islam arrivò ben prima degli europei, ma per la presenza della scrittura come atto concreto. Basti pensare alla storia di Afiya, la ragazza orfana che il fratello affida a una famiglia del suo villaggio quando si arruola tra gli ascari, che viene brutalmente punita perché ha imparato a scrivere. “Che bisogno ha di scrivere una ragazza? Così può scrivere a un pappone?” grida lo zio (in realtà l’uomo che tiene Afiya in casa sua più che altro come una schiava); parla una cultura genuinamente patriarcale, che tiene le donne praticamente recluse, e che considera la loro istruzione più come qualcosa da temere ed evitare a ogni costo che da desiderare. Ma siamo tra il 1914 e il 1918 (pur avendo un’acuta consapevolezza storica e avendo scritto romanzi storici, Gurnah è sempre parco con le date), in un villaggio africano dell’entroterra, non nell’Afghanistan di oggi – l’atteggiamento dello “zio” riflette la mentalità del tempo e del luogo, anche se le percosse che seguono sembrano essere troppo anche per il Tanganica di centodieci anni fa. In ogni caso, Gurnah contrappone all’ottusità e alla brutalità dello “zio” l’apertura mentale di Khalifa, il contabile, che successivamente ospiterà Afiya, come a dire che anche allora non tutti concepivano le donne solo come madri mogli e – in pratica – serve. In questi romanzi ci sono persone che scrivono, chi per lavoro, come il contabile Khalifa in “Afterlives”, chi per vocazione, come Latif in “Sulla riva del mare”, oppure il critico e docente universitario Rashid (uno dei vari alter-ego di Gurnah che si incontrano nei suoi romanzi), o sua sorella Farida, prima sarta e poi poetessa, ne “Il disertore”. Si sente che l’autore ha insegnato per anni, prima in Nigeria, poi all’Università del Kent: nelle sue narrazioni la scrittura offre una possibilità di riscatto, talvolta di liberazione. E non stupisce che un uno studioso della letteratura postcoloniale come lui (con al suo attivo saggi su Salman Rushdie e diversi scrittori africani) faccia attenzione al plurilinguismo della sua terra e più in generale delle nazioni africane. Gurnah ogni tanto lascia nel tessuto della sua prosa frasi in kiswahili, la lingua autoctona della Tanzania e di altri cinque stati dell’Africa Orientale, talvolta traducendole, talvolta lasciando che se ne intuisca il significato dal contesto. Scrive nella lingua dell’ultima potenza coloniale che ha governato il suo paese, l’Inghilterra, poi diventata sua patria d’adozione; ma nelle sue pagine è di casa anche il tedesco dei primi, spietati colonizzatori del Tanganica (la cui feroce repressione delle rivolte dei nativi è tema di tutta la seconda parte di “Afterlives”), e soprattutto l’arabo del Corano. Gurnah è sempre assai attento all’interazione tra queste lingue, a come esse consentano o precludano la comunicazione tra i suoi personaggi, a come l’uso delle lingue dei dominatori possa far sì che i dominati vengano tenuti in posizione subalterna, ma come una volta apprese esse possano diventare strumento di emancipazione. Prova ne, in “Afterlives”, il complesso, ambiguo e a tratti morboso rapporto tra la recluta Hamza e l’ufficiale tedesco che passa per le lezioni di lingua che il secondo impartisce al primo, un atto di imperialismo culturale, senz’altro, ma anche una presa di coscienza per il soldato africano, e una chance di riscatto sociale dopo la guerra. D’altronde, Gurnah, come diversi altri scrittori africani, da Chiuna Achebe a Wole Soyinka a Chimamanda Ngozi Adichie (e altri se ne potrebbero elencare) hanno scritto nella lingua dell’impero, vedendo in questa scelta non tanto l’accettazione supina di un’egemonia culturale, quanto la possibilità di far arrivare la propria voce, e la storia del proprio paese, le vicissitudini e le disgrazie dei propri popoli, al mondo intero. Non solo perché l’inglese è lingua globale, ma anche perché ci sono traduttori dall’inglese dappertutto. E se oggi possiamo vedere il colonialismo con gli occhi dei colonizzati, è anche grazie alla loro capacità di impadronirsi della lingua dei colonizzatori, e di farle raccontare un’altra versione della storia.

Umberto Rossi, Docente, saggista e critico letterario

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