"Perchè ci vuole orecchio..."

“Perchè ci vuole orecchio…”

Di Emilio Giovenale   
Ed eccoci alla seconda parte di questo articolo (se avete perso la prima la trovate qui), in cui cercheremo di raccontarvi qualcosa in più del mondo delle “illusioni acustiche”, e del loro collegamento coi meccanismi neurologici preposti alla interpretazione del mondo che ci circonda. Lo faremo utilizzando i risultati ottenuti nel campo dalla famosa ricercatrice Diana Deutsch.

La melodia misteriosa

Abbiamo visto che è possibile “ingannare” i nostri sensi giocando con timbri e duplicazioni. Alla base di questi fenomeni percettivi c’è il modo in cui il nostro cervello elabora le informazioni. Cerchiamo di capire allora quali siano, ad esempio, i meccanismi che permettono di “riconoscere” un brano musicale. Ascoltate la seguente sequenza e ditemi se la riconoscete…

Probabilmente per voi questa musica non ha un “senso”… ma in effetti si tratta di un brano molto conosciuto, le cui note sono state semplicemente spostate di ottava, in alto o in basso… Ascoltate ora il brano originale

Non ho dubbi che lo abbiate riconosciuto! Ma la cosa più interessante è che, se ora vi faccio sentire di nuovo il brano “alterato”, sarete in grado di “seguire la melodia” senza particolari problemi:

Questa è la prova del verificarsi di un processo che in psicologia viene denominato “top-down processing”, che è il processo tramite il quale il cervello utilizza le conoscenze di cui è già in possesso per interpretare le nuove esperienze sensoriali, procedendo in genere dal generale allo specifico, permettendo una più esatta comprensione del mondo che ci circonda. Funziona non solo con l’udito ma anche con le immagini: qui c’è un esempio tipico:

Questa immagine appare a prima vista un insieme caotico di macchie, ma se vi diciamo che rappresenta un cane, lo troverete immediatamente nell’immagine!

Nel caso del riconoscimento di una melodia il problema è mettere in un rapporto sequenziale le note, con dei precisi intervalli tra nota e nota, e l’elemento “confondente” era avere alterato questi intervalli, spostando le note a ottave differenti. Ora proseguiamo su questa ricerca cercando di capire come il nostro cervello interpreta l’informazione “musicale”.

La memoria a breve termine per i suoni

Il nostro cervello ad esempio è perfettamente in grado di riconoscere se due suoni rappresentano la stessa nota o meno, anche se tra i due suoni inserisco una pausa di alcuni secondi. Quindi il nostro cervello “memorizza” la nota e poi la confronta con la seconda. Ascoltate questi due esempi e verificate

Sembra non ci siano particolari difficoltà nel determinare se i due suoni siano o meno uguali…

Cosa succede però se tra le due note ne inserisco altre e chiedo di sapere se la prima e l’ultima nota sono uguali o differenti?

Diventa difficile confrontare il primo e l’ultimo suono, perché quelli intermedi ci hanno “confuso”. La conclusione è che il nostro cervello conserva l’informazione sull’altezza di un suono in una memoria a breve termine, è che questa memoria viene “sovrascritta” dalle note intermedie. Notate che, almeno per chi ha buon orecchio musicale, il riconoscimento è più facile se i suoni intermedi hanno una relazione melodica ed i suoni non sono dissonanti tra loro: il nostro cervello memorizza la linea melodica e riesce a riportare alla memoria la prima nota. Questo significa che l’area del cervello adibita alla memorizzazione di una intera melodia è diversa da quella che memorizza la singola nota.

La cosa più interessante però è verificare cosa succeda che se, invece delle note, tra i due suoni da confrontare inserisco del materiale differente, per esempio una voce che legge dei numeri.

In questo caso risulta facile confrontare i due suoni: l’informazione inserita tra i due non ci confonde, dal che si deduce che questa informazione aggiuntiva non è stata memorizzata nell’area adibita alla memorizzazione a breve termine del suono. Il nostro cervello elabora suono e linguaggio in aree differenti.

Una cosa curiosa, su cui stanno ancora investigando, è il fatto che nei vari test condotti, con diverse varianti, su questo argomento, si è rilevato che statisticamente sono più bravi nel riconoscere i toni i mancini dei destrorsi, e che tra i mancini i migliori sono quelli che sono anche ambidestri. Un’ipotesi è che in queste categorie ci sia una tendenza alla “duplicazione” delle aree adibite alla memorizzazione dell’informazione.

Suono e immagine

Quindi abbiamo visto che linguaggio e musica non interagiscono nel processo di memorizzazione dell’altezza di un suono. Ci sono invece processi in cui informazioni provenienti da sistemi sensoriali differenti interagiscono tra loro, per fornire una “interpretazione” del messaggio ricevuto. Un esempio è l’effetto McGurk, esemplificato nel video che segue

Che sillabe pronuncia l’attore? Qualcosa come ga-ga… o al più da-da

Ascoltate ora l’audio senza il video

Si sente chiaramente “ba-ba”. Il problema è che il nostro cervello sa che per pronunciare la consonante B è necessario unire le labbra. Quando vediamo una persona che pronuncia la B, la vediamo unire le labbra, ma nel video questo non accade, per cui, sempre sulla base del “top-down processing” di cui abbiamo già parlato, il cervello utilizza l’informazione visiva per alterare la interpretazione dell’informazione acustica. Di fatto adegua l’informazione ricevuta alla sua “esperienza” eliminando il dato “incomprensibile”.

Questo fenomeno accade anche al rovescio, ed è il motivo per cui, quando guardiamo un film doppiato in italiano, non ci disturba il fatto che il labiale degli attori non corrisponda esattamente all’audio in italiano: il cervello predilige l’informazione comprensibile e scarta quella incomprensibile (il labiale in un’altra lingua).

L’illusione del canto

Se in precedenza abbiamo dedotto che la memorizzazione dell’altezza di un suono viene processata in aree del cervello diverse rispetto a quelle che processano il linguaggio, ci sono evidenze che linguaggio e musica siano fortemente correlati per altri aspetti. Una dimostrazione è data dalla seguente illusione. Ascoltate l’audio (è una frase in inglese: “the sounds as they appear to you are not only different from those that are really present, but they sometimes behave so strangely, as to seem quite impossible”

Sembra una normalissima frase… vediamo cosa succede se ascoltiamo un frammento un certo numero di volte:

Il brano ripetuto sembra “cantato”… ma la cosa più interessante è quel che succede se ascolto di nuovo la frase senza ripetizioni:

Nel bel mezzo della frase, il testo diventa “cantato”, e non possiamo fare a meno di sentirlo come tale! E a distanza di tempo, mesi, anni, se risentiamo la stessa frase, non potremo più interpretarla come testo, ma sempre come musica (effetto della nostra memoria e del “top-down processing”).

Interpretazione dell’illusione del canto

Dopo l’esperimento iniziale della Deutsch, descritto qui nel dettaglio, sono stati svolti ulteriori studi. Per esempio si è scoperto che l’illusione funziona meglio e più in fretta per soggetti che non hanno una educazione musicale di base, probabilmente perché chi ha una educazione musicale ha una maggiore propensione a riconoscere cosa sia effettivamente musica.

In realtà per molto tempo si è pensato che la differenza tra canto e linguaggio risiedesse nelle caratteristiche sonore: il canto contiene suoni di intonazione stabile, che tendono a spostare l’intonazione in maniera chiara, in qualche modo prevedibile sulla base del nostro gusto musicale, mentre il linguaggio parlato coinvolge strutture sonore che cambiano intonazione in modo repentino, con cambi anche pronunciati e non prevedibili, con mutazioni timbriche, in particolare collegate alla pronuncia delle consonanti.

La spiegazione della psicologia

Questa illusione smentisce questa interpretazione: la frase che ascoltiamo la prima volta, identificandola come testo, è acusticamente identica a quella che, dopo le ripetizioni, identifichiamo come musica. Quindi il fenomeno deve derivare da altri meccanismi. L’ipotesi che le nuove ricerche hanno messo in campo è quello della “sazietà semantica”: un fenomeno studiato in psicologia. Se ripetiamo la stessa frase un elevato numero di volte, il nostro cervello ritiene che l’informazione testuale che gli arriva sia ridondante, e quindi inutile. Il “significato” semantico della frase è stato acquisito, e quindi le ripetizioni vengono ritenute inutili… il cervello scarta l’informazione testuale e resta solo quella legata al “suono”, che il cervello interpreta come musica!

Faccio una osservazione personale: il nostro cervello si “stufa” di sentire lo stesso contenuto testuale, ma non si stufa mai di sentire la stessa musica: è per noi fonte di piacere riascoltare i brani musicali che ci piacciono. Forse la cosa è legata al fatto che l’informazione musicale non risulta essenziale per la sopravvivenza della specie, ma solo per il suo piacere!

L’orecchio assoluto

C’è un’altra evidenza che dimostra il collegamento che esiste tra musica e linguaggio, che emerge dagli studi effettuati sugli individui dotati del cosiddetto “orecchio assoluto”. In generale, anche abili cantanti, quando devono eseguire un brano hanno bisogno che qualcuno gli faccia ascoltare una nota di riferimento, dalla quale partire per la loro melodia. Si dice “dare il la”, con il significato esteso di “dare uno spunto per una attività” perché in genere si utilizza come nota di riferimento il la a 440 Hz del pianoforte.
Qualunque musicista, a partire da una nota non troppo distante, è capace di riconoscere, o di eseguire, un’altra nota ed elaborare una melodia. Sono invece pochissimi coloro che, sentendo una nota, sono direttamente in grado di identificarla, senza confrontarla con una di riferimento. In occidente sono meno di uno su 10.000!

Differenza tra suono e colore

La cosa è bizzarra: un fenomeno analogo, in cui un nostro sensore identifica la frequenza di un’onda, è la percezione del colore. Ebbene, chiunque abbia un sistema di visione normale è in grado di distinguere chiaramente tra il rosso, il giallo, il verde, e anche di dare informazioni sulla “sfumatura” dei colori. Eppure in campo musicale le “note” del sistema occidentale sono solo 12, e si ripetono uguali ottava dopo ottava, in un sistema circolare, per cui appare strano che sia così difficile associare al suono ascoltato il nome della relativa nota musicale.

Questo fatto ha alimentato una sorta di leggenda per cui l’orecchio assoluto è visto come un dono misterioso, accessibile solo a pochi individui eccezionalmente dotati. Il fatto che molti musicisti famosi, come Mozart, Bach, Beethoven, Händel, Toscanini, Boulez… fossero noti per possedere questa capacità rende questo mito ancora più credibile. Il fatto che questa abilità apparisse spesso nei membri di una stessa famiglia ha fatto anche ipotizzare che ci fosse una componente genetica, ma studi in tal senso finora non sono riusciti a dimostrare la solidità di una tale ipotesi. Per contro si è fatto notare che nelle famiglie di musicisti spesso i bambini sono “esposti” alla musica fin dalla più tenera età. Si è quindi ipotizzato che una tale esposizione facilitasse lo sviluppo di una tale capacità.

Le basi scientifiche

Uno studio pubblicato da P.T. Brady ha certificato che acquisire una tale competenza in età adulta risulta estremamente difficile, se non impossibile, anche se ci si sottopone ad un allenamento particolarmente intensivo, mentre da un altro studio emerge che il 40% di coloro che hanno iniziato a prendere lezioni di musica prima dei quattro anni hanno sviluppato orecchio assoluto. E.H. Lenneberg ha quindi ipotizzato che esista un’età “critica” per l’acquisizione di questa capacità, che appare essere la stessa associata alla capacità di acquisire facilmente la capacità di parlare una seconda lingua. I bambini che imparano una seconda lingua in questo “intervallo temporale” la parleranno praticamente come la lingua madre, senza accenti “stranieri”.

Questa concordanza nei tempi non è casuale, e induce a ipotizzare una correlazione stretta tra linguaggio parlato e linguaggio musicale, correlazione che viene confermata da altri studi condotti sulla associazione dell’orecchio assoluto coi cosiddetti “linguaggi tonali”.

I linguaggi tonali

I linguaggi “tonali” sono quelli in cui le parole possono assumere significati differenti a seconda del “tono” con il quale sono pronunciate. Nelle lingue occidentali l’intonazione di una parola può servire a veicolare uno stato emotivo o a sottolineare un termine, ma il contenuto semantico non varia. Nelle lingue tonali, come il cinese mandarino, il cantonese e il vietnamita, invece sia il “tono” che la sua variazione nel tempo cambiano il significato della parola. Per esempio nel cinese Mandarino la parola può essere pronunciata in quattro modi. Nel primo l’intonazione è alta e costante, nel secondo è medio-alta e crescente, nel terzo è bassa, scende e poi risale, e nel quarto parte dall’alto e scende. La parola “ma”, pronunciata nel primo modo significa “madre”, nel secondo significa “canapa”, nel terzo significa “cavallo” e nel quarto rappresenta un generico rimprovero.

Ebbene, si è scoperto che tra le persone che parlano come lingua madre una lingua tonale, è estremamente più elevato il numero di persone dotate di orecchio assoluto, il tutto anche tra persone che non hanno mai ricevuto alcuna forma di educazione musicale. Questo può essere associato alla necessità di associare i toni alle parole fin dalla più tenera età. Per contro, i parlanti di lingue non tonali come l’inglese, che non hanno l’opportunità di associare i toni a parole significative durante l’infanzia, sono svantaggiati nell’acquisizione dell’orecchio assoluto per i toni musicali. Questo dimostrerebbe che l’orecchio assoluto, originariamente considerato una abilità musicale, derivi invece da un’esigenza di interpretazione del linguaggio.

Le basi neurologiche

A ulteriore supporto dell’ipotesi che l’intonazione assoluta nelle lingue tonali possa essere associata a caratteristiche del linguaggio, è stato dimostrato che le strutture cerebrali responsabili dell’elaborazione del tono lessicale si sovrappongono a quelle coinvolte nell’elaborazione dei fonemi.

La comunicazione delle caratteristiche prosodiche del linguaggio (l’intonazione, il ritmo, l’accento e la durata delle sillabe e delle parole) è in genere una funzione dell’emisfero cerebrale non dominante (il destro per i destrimani), mentre la conversione delle parole in contenuto sembra essere una funzione dell’emisfero dominante (il sinistro per i destrimani) sia per i parlanti di lingue tonali che per quelli di lingue non tonali. Quindi, chi parla una lingua tonale, quando elabora il messaggio semantico collegato al tono di una parola, utilizza il circuito dell’emisfero dominante. Questo circuito si sviluppa molto presto nella vita, ed è quello che permette l’acquisizione del linguaggio. Pertanto, se l’opportunità di formare l’associazione con il tono non è disponibile durante questo periodo critico, queste associazioni diventano in seguito molto difficili da acquisire.

Una componente genetica?

Resta aperta la questione riguardo al fatto che solo una parte dei bambini sottoposti ad una precoce educazione musicale sviluppi orecchio assoluto. In realtà Diana Deutsch ha stabilito una correlazione, in questo gruppo di soggetti, tra individui che hanno una non comune memoria per le parole e individui che hanno sviluppato orecchio assoluto. Ha sottoposto i soggetti a un test per verificare quanti numeri consecutivi erano in grado di tenere in memoria e ripetere dopo averli ascoltati o averli visti, ed è risultato che chi aveva orecchio assoluto aveva una migliore memoria. E’ interessante rilevare anche che il risultato è statisticamente significativo nel test di ascolto, mentre è nei margini d’errore per quello visivo

Questa scoperta riporta in gioco anche l’ipotesi di un’origine genetica di questa capacità, perché altri studi hanno dimostrato che una particolare abilità in quest’ultimo test utilizzato può avere un’origine genetica.

Quindi quali sono le conclusioni? Fondamentalmente abbiamo scoperto che il nostro cervello elabora l’informazione semantica e l’informazione “musicale” in maniere differenti, anche con strutture cerebrali differenti, ma poi riunisce tutte queste informazioni per produrre un risultato unico, che tenga conto di tutte le componenti e di tutti gli stimoli. E che per questo voler categorizzare musica e linguaggio come elementi differenti sia pressoché impossibile, visto che entrambi i sistemi coinvolgono complessi processi di trasferimento dell’informazione, interagenti tra loro.

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Emilio Giovenale, fisico ricercatore ENEA e divulgatore della scienza