autoesperimenti

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“Tutti abbiamo le nostre prime volte. Ma certe prime volte cambiano la storia”. Così inizia Eroica, folle e visionaria, il nuovo libro di Silvia Bencivelli, giornalista, divulgatrice scientifica, conduttrice radiofonica e televisiva e scrittrice. Un libro che racconta la storia di scienziati che hanno scelto di essere cavie e allo stesso tempo artefici di esperimenti per il progresso della medicina. Fra loro c’è chi ci ha vinto un Nobel, chi non è sopravvissuto e chi non ha ottenuto alcun risultato. Ne parliamo con l’autrice Silvia Bencivelli

Calvino diceva che la poesia e la ricerca scientifica si fondano sullo stesso istinto umano, sulla stessa idea poetica di ricerca e di invenzione

Qual è stato il percorso che l’ha portata a essere oggi una divulgatrice scientifica?

Il mio è stato un percorso un po’ casuale perché mi sono laureata in medicina senza voler fare il medico e ho scoperto un po’ tardi che non avrei voluto fare nemmeno la scienziata. Ho pensato di fare politica e quindi di studiare sanità pubblica,ma anche quello non andava. Quindi, su imbeccata di un amico, ho fatto il concorso per entrare al master della SISSA (NdR Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati). Lì ho avuto un paio di fortune. La prima, e la più grande, è stata quella di incontrare un maestro, di quelli che ti aiutano a capire quali sono le tue capacità e che ti sanno instradare senza decidere loro cosa è giusto per te. Questo maestro si chiamava Romeo Bassoli, è morto dieci anni fa, e a lui devo l’inizio della mia carriera e soprattutto la decisione di lasciare l’università a Pisa per lavorare in un’agenzia di comunicazione a Roma. Un’altra fortuna è stata che su certe cose avevo facilità e quindi già dopo sei mesi al master ho cominciato a scrivere sui quotidiani nazionali. All’epoca era una cosa non solo possibile ma anche sensata, perché venivi pagata decentemente. Dopodiché ci sono state altre circostanze fortunate. Per esempio, l’incontro con Rossella Panarese, che molto presto mi ha proposto di entrare in redazione. Quindi, l’avere incontrato maestri capaci di instradarmi, la certa facilità nello scrivere e l’epoca storica in cui i giornali pagavano e lasciavano scrivere una come me, mi hanno permesso di cominciare a fare questo mestiere. Sì, perché anche il periodo storico è stato fortunato. Vent’anni fa c’era moltissimo da fare, c’erano risorse, ottimismo e nuovi mezzi di comunicazione. C’era più spazio per imparare cose nuovissime che oggi sono considerate basic skills per chiunque. 

volevo parlare di medicina in un modo che mi permettesse di acchiappare il lettore perché era una bella storia e non perché era una storia di scienza

Come nasce l’idea di “Eroica, folle e visionaria”?

Il momento della scintilla non lo ricordo. Però era da tempo che cercavo il modo di scrivere di medicina in maniera un po’ diversa dal solito. Non volevo scrivere di medicina per grandi scoperte o per grandi eroi perché è un modo scorretto di parlarne. La medicina è un’impresa umana fatta anche di gente che litiga, che sbaglia e che fa cose strane; descriverla come un’impresa di eroismi e di avventure fa arrabbiare da morire gli storici e io agli storici voglio bene e anzi, forse, ne ho abbastanza paura. Invece, volevo parlare di medicina in un modo che mi permettesse di acchiappare il lettore perché era una bella storia e non perché era una storia di scienza. 

gli autoesperimenti non solo mi davano modo di restituire la dimensione umana ma anche di uscire dai tecnicismi e di dare al libro un aspetto di narrazione senza fare divulgazione

E l’autoesperimento?

Mi sono resa conto che era un tema per me perfetto, perché gli autoesperimenti sono stati normali nella scienza medica fino a qualche decennio fa. Oggi sono una storia conclusa che noi esseri umani degli anni ‘20 del 2000 troviamo strana perché abbiamo assorbito concetti moderni della metodologia, dell’etica. Per cui gli autoesperimenti non solo mi davano modo di restituire la dimensione umana, ma anche di uscire dai tecnicismi e di dare a queste storie la forma di una narrazione senza fare divulgazione. Detesto l’idea di fare divulgazione, voglio scrivere cose interessanti senza spiegare niente a nessuno. Poi, un altro vantaggio era che un libro sul tema ancora non era stato scritto. O, meglio, c’è un bellissimo libro americano degli anni ‘80 che contiene le interviste agli ultimi autosperimentatori. Questo libro, però, parte da presupposti diversi dai miei e racconta la storia in maniera molto diversa da come faccio io. Un saggio scritto negli anni ‘80 per certi versi per noi può essere strano, quasi respingente, per esempio per il modo in cui i medici parlano delle colleghe donne. Ti fa rendere conto di come le cose oggi siano migliorate. Infine, l’ultimo dei vantaggi, diciamo così, degli autoesperimenti è che avrei potuto scriverne anche in epoca di lockdown. Oggi molta parte della letteratura scientifica è digitalizzata, i documenti che un tempo erano solo per storici e topi di archivio oggi sono disponibili a chiunque li sappia cercare. Devo dire la verità: ora che me ne fai parlare, mi rendo conto di essere convinta di aver fatto una buona scelta.

negli anni ‘80 il cambiamento della comunicazione coincide anche con un cambiamento della metodologia scientifica e dell’etica

Come si sceglie la fonte quando si scrive di scienza? E quanto conta dare l’informazione giusta?

Comunque la scegli, la devi citare. Poi, devi fare un’operazione di confronto dei testi che trovo anche piuttosto divertente. Mettendo le fonti a confronto ci sono situazioni in cui è più facile che emerga la verità su come sono andate le cose, o almeno che ti possa fare un quadro più completo, o perché è passato del tempo e alcune testimonianze apparentemente poco solide, nel frattempo, non sono state smentite, o perché può essere uscita una nuova intervista, magari un po’ personale, oppure le versioni di più persone che hanno assistito alla cosa. In passato, quando gli scienziati erano pochi ed erano meno pressati dall’urgenza di pubblicare, in un articolo scientifico si raccontavano le cose con minuzia e si facevano resoconti dettagliati, autentici, precisi di quello che era successo davvero. In quegli articoli si trovano descrizioni degli esperimenti, alle volte anche con aggettivi che ti aprono un mondo. Ecco, semmai un problema un po’ delicato è quello della traduzione. Perché un aggettivo usato in un tedesco di fine ‘800 non sono certa che oggi abbia lo stesso significato. E soprattutto non so se sia un’operazione corretta che sia io a tradurre. Io l’ho fatto sentendomi autorizzata dal fatto che questo è un saggio narrativo. Poi, a dire la verità in tanti casi ho un po’ interpretato perché, di nuovo, non sono una storica della medicina. In certi casi, lo ammetto, ho un po’ calcato la mano, come quando racconto di un Pettenkofer vecchio e rancoroso. Diciamo che dalla sua storia se ne intuisce il profilo psicologico: è stato uno degli accademici più importanti di Germania, messo da parte, finito a scrivere libri esoterici e poi suicida. Però il suo rancore appartiene a una mia lettura personale. Diciamo che mi sono permessa qualche licenza narrativa perché volevo scrivere un libro bello da leggere e non un libro su cui si prepara un esame. 

Quando racconta dell’autoesperimento di Forssmann, il primo ad aver praticato il cateterismo cardiaco, scrive: “nell’articolo ha scritto qualche balla. È interessante notare che queste balle siano tutt’ora credute tanto che la pagina Wikipedia di Forssmann le riporta in maniera pedissequa”. In questo caso come si fa a trovare la fonte corretta?

Nel caso di Forssmann la fonte avrebbe dovuto essere l’articolo scientifico. Ma lì c’era la balla. Lo dico avendo come fonte (della balla!) le interviste nel libro degli anni ’80 in cui è lui stesso a confessarla, e la sua autobiografia in cui dà una versione più sincera di alcuni passaggi della questione, perché scritta a distanza di tempo, e dopo il Nobel. Ovviamente questo vale per la vicenda dell’autoesperimento, ma non per tutti i dettagli della sua storia. Il grande caso di Forssmann riguarda anche la sua adesione al partito nazista, e di quello si guarda bene dal parlare. Questo ti dimostra che ci sono fonti migliori per certe parti della storia. L’autobiografia o l’intervista sono utili per quanto riguarda la veridicità dei suoi appunti scientifici, ma non per sapere se lui davvero si è comportato da nazista: quello non sarà mai lui stesso a dirlo! Di certo uno storico te la spiegherebbe meglio: ai miei fini bastava dire che quel punto lì non è facile da ricostruire. 

Secondo lei esiste una verità scientifica?

Ogni ricostruzione a posteriori è viziata dal nostro sguardo. Ma questa è anche una delle ragioni per cui gli autoesperimenti oggi non hanno più senso: perché il nostro sguardo non è mai neutro, vediamo quello che vogliamo vedere e nella scienza abbiamo inventato la metodologia, il doppio cieco, la statistica e compagnia cantante proprio per ripulire il più possibile dalla nostra umanità fallace il dato, quello che vogliamo usare per affrontare il problema che la natura ci pone. Non siamo osservatori e raccontatori neutrali, non lo siamo mai, e quindi pensare di poter essere insieme cavia e sperimentatore oggi non funziona più. Finché la scienza è un’impresa umana non può contenere verità intesa in senso divino. Contiene verità che hanno un valore e un senso in quel momento anche se domani vengono smentite. 

una scienza che non parla al resto del mondo non può funzionare, è così da sempre. Galileo d’altronde ha scritto in volgare

Perché scrivere di scienza e come si intrecciano i linguaggi della scienza e della letteratura? 

Il legame tra scienza e letteratura c’è sempre stato. Non è che siccome stai scrivendo di scienza puoi permetterti di scrivere male. La scienza va considerata una delle materie possibili del proprio libro. Secondo me, però, è la più interessante. È un fatto personale: io non sopporto più la narrativa basata solo su psicologismi o storie che potrebbero anche non essere, e figuriamoci le storie d’amore. Per me ci deve essere un po’ di verità, di concretezza, di ragionamento e anche un po’ di cose stupefacenti e la scienza me ne offre tantissime.

Per questo per me la scienza è il materiale narrativo perfetto. La scienza è piena di storie che potrebbero diventare film. Nel mio libro, ad esempio, io ne vedo almeno venti di film. Ma poi Calvino diceva che la poesia e la ricerca scientifica si fondano sullo stesso istinto umano, sulla stessa idea poetica di ricerca e di invenzione. E credo che avesse ragione. 

mi sono permessa qualche licenza narrativa perché volevo scrivere un libro bello da leggere e non un libro su cui si prepara un esame

“L’immagine eroica di uno che fa esperimenti su di sé è cambiata, la medicina è cambiata, è cambiata la sua comunicazione ed è cambiato il dibattito pubblico su quello che fa”. In che modo è cambiata la comunicazione e il dibattito pubblico? 

Siamo molto più presenti e partecipi, nel bene e nel male. Negli anni ‘80 non avevamo internet, men che meno i social network. Guardavamo la tv e, i più evoluti di noi, compravamo libri e leggevamo i giornali. Era tutto molto più semplice. Internet ci ha avvicinato e ci ha dato strumenti di lettura e di diffusione delle notizie. Il dibattito pubblico è diventato più complesso perché coinvolge più persone. L’autoesperimento finisce tutto sommato anche per queste ragioni: siamo un pubblico diverso per la scienza, e la scienza che si propone come distante da noi, eroica e indiscutibile, non funziona più. Questa trasformazione è visibile, per esempio, nell’autoesperimento di Barry Marshall, per il quale ha ricevuto il Nobel nel 2005, consistente nel bere un bicchierone di germi per dimostrare che l’ulcera è causata da un batterio. A causa di una fuga di notizie questo autoesperimento viene conosciuto prima dai giornalisti generalisti evidenziando una novità: adesso è il pubblico che chiede al medico il farmaco. Marshall è testimone di questa trasformazione e infatti durante la cerimonia per il premio Nobel ringrazia i giornalisti. Sono gli anni ’80 e questo cambiamento della comunicazione, di cui Marshall si rende benissimo conto, coincide anche con il cambiamento della metodologia scientifica e dell’etica.

A proposito dell’autoesperimento di Marshall che dimostra che l’ulcera gastrica è causata da un batterio e alla fuga della notizia, scrive che “i giornalisti che hanno trattato la notizia hanno contribuito in modo importante a educare il pubblico a chiedere e richiedere i nuovi trattamenti ai medici riluttanti” e continua: “esiste un giornalismo che parla di scienza e di salute rivolto dichiaratamente ai non esperti che può arrivare a cambiare il mondo della scienza”. Secondo lei il giornalismo scientifico può cambiare il mondo della scienza? e in che modo? 

Lo può fare in tantissimi modi. Ed è giusto così perché le cose che fai, nel mondo della ricerca, devono essere conosciute fuori. Ma più che il giornalismo è la comunicazione in generale. Succede che la comunicazione cambi la scienza, intanto per una ragione etica: la ricerca si fa con i soldi pubblici, e al pubblico deve spiegarsi. Però ci sono anche ragioni molto più concrete. Sicuramente c’è una ragione che riguarda l’accettabilità sociale della ricerca scientifica e la sua buona reputazione, fatto non indifferente in occasioni di conflitti tra scienza e società. Poi c’è anche la motivazione di avvicinare le persone alla scienza, in particolare i giovani affinché scelgano la scienza come professione. E ai giovani spesso la scienza piace davvero: non è un caso il successo di spettacoli, festival, canali video di scienza. Ma poi, molto banalmente, un gruppo di scienziati che non sa fare comunicazione prima o poi non riesce a ottenere più finanziamenti, perché a chi può chiederli se non si è fatto dei buoni amici? Insomma, una scienza che non parla al resto del mondo non può funzionare, è così da sempre. Galileo d’altronde ha scritto in volgare.

ogni ricostruzione a posteriori, anche se non riguarda la scienza, è viziata dal nostro sguardo

Quindi il giornalismo scientifico può contribuire alla formazione scientifica del Paese?

Certo, perché non dovrebbe? La scienza è parte del nostro mondo, è parte della costruzione del nostro presente e del nostro futuro: come fa a non parlare? Poi alcuni ci accusano di degradare il messaggio, ma del resto esistono anche un sacco di scienziati che comunicano molto male, in mille modi, o che si inventano comunicatori per promuovere il proprio messaggio e scavalcare i colleghi. È un mondo imperfetto ma è anche questo che lo rende divertente. 

in un mondo in cui è difficile emergere chi emerge ha il coltello tra i denti

Raccontando di Harriette Chick, scienziata alla quale si devono importanti scoperte sul rachitismo, scrive “di madri della scienza nessuno ha mai parlato nemmeno quando sarebbe stato facile farlo come in questo caso”. Secondo lei è ancora così? 

No, ma c’è ancora da lavorare: i numeri sono ancora sbilanciati. È anche vero che, poiché per le donne è più difficile fare carriera, quelle che emergono in genere sono le più “feroci”. Comunque, le cose stanno rapidamente migliorando. Quanto alla storia degli autoesperimenti: questa è una storia al maschile perché la storia della scienza, purtroppo, nei tempi passati, era una storia esclusivamente al maschile. Però nel mio libro, per come ho potuto, le ho vendicate, queste madri della scienza. Il titolo è tutto al femminile e il sottotitolo contiene un aggettivo femminile. Nella mia copertina quindi ci sono quattro aggettivi al femminile e due sostantivi al femminile di cui uno è il mio nome, l’altro è “medicina”. E questo è stato un bilanciamento molto, molto pensato.

nel mio libro ho vendicato le madri della scienza. Nella copertina ci sono quattro aggettivi al femminile e due sostantivi al femminile. E questo è stato un bilanciamento molto, molto pensato

Che consiglio darebbe a una giovane che vuole intraprendere il mestiere della comunicatrice scientifica?

Di fare un buon master perché permette di avere buoni contatti. Poi, di leggere, di vedere musei e anche di viaggiare un po’. Le direi di incuriosirsi, di guardare cosa viene fatto e di provare a trovarci dei canoni e degli stili per capire la complessità in queste costruzioni. Ma anche di non avere paura perché posto c’è. In vent’anni di carriera ho cambiato cento volte il mio modo di lavorare. Cambia la scienza, cambiano i mezzi comunicazione, cambia il pubblico. È uno dei mondi più dinamici che c’è e questa è anche la cosa che lo rende divertente. 

Silvia Bencivelli, medico, giornalista, comunicatrice scientifica, autrice e conduttrice radiofonica e televisiva, scrittrice e docente del master “la scienza nella pratica giornalistica” presso il dipartimento  di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza università di Roma

Sofia Gaudioso, biologa e comunicatrice della scienza, Sapienza università di Roma