STAR in medicina

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Prima per numero di trapianti in Italia, la divisione di chirurgia toracica dell’ospedale universitario Sant’Andrea di Roma, è un’eccellenza nazionale. Ma come si costruisce una divisione dal livello qualitativo così alto? Ne parliamo con il suo direttore Erino Angelo Rendina, il primo, insieme al collega Federico Venuta e con la supervisione del professore Costante Ricci, ad aver realizzato un trapianto di polmone in Italia. Rendina, che è anche professore ordinario e preside della facoltà di medicina e psicologia di Sapienza università di Roma, ci racconta dell’importanza di formare e di guidare i più giovani per ottenere una sanità di qualità.

un professore universitario deve avere la generosità di lasciare crescere i giovani. Ognuno dei miei collaboratori è insostituibile e indispensabile 

Nella sua Divisione sono stati effettuati il primo trapianto di trachea in Italia e risulta essere la prima unità per numero di interventi per tumore al polmone. Lei, tra l’altro, è stato il primo chirurgo ad aver fatto il trapianto di polmone in Italia. Come si diventa una divisione di chirurgia toracica di eccellenza?  

Le cose vengono dal lavoro comune. La nostra è stata un’idea di gruppo fin dall’inizio, una grande scommessa che poteva fallire, ma che invece ha avuto successo grazie ai tanti colleghi e collaboratori. Come prima cosa, credo che un professore universitario debba avere la generosità di lasciare crescere i giovani. Il primo trapianto di trachea l’ha fatto una mia collaboratrice di 35 anni. L’assioma che tutti sono utili e nessuno è indispensabile va bene per la mediocrità: se tutti sono sostituibili vuol dire che tutti sono mediocri. Ognuno dei miei collaboratori è invece insostituibile e indispensabile a modo suo. Certo, potrebbero pretendere di più proprio perché indispensabili, ma questo è un rischio che voglio correre. Poi, un’altra cosa importante è la continuità. Essere professore universitario vuol dire trasmettere sapere, formare, educare ma soprattutto avere una continuità nel sapere. Lo specializzando che ha iniziato da me vent’anni fa oggi è il professore ordinario Mohsen Ibrahim e sarà il mio successore. Ho tenuto a farlo diventare professore ordinario otto anni prima di andare in pensione proprio per evitare il cupio dissolvi a cui tanti degli altri colleghi vanno incontro.

I vostri specializzandi sono quindi molto responsabilizzati. In effetti le serie TV ci hanno ormai abituato alla loro importanza per il buon funzionamento di qualsiasi reparto. È un’immagine fuorviante? 

Da noi un po’ è così perché il nostro è posto fortunato. L’armonia che c’è tra noi grandi si riflette in un ambiente sereno al quale tengo davvero molto. Essendo nato e cresciuto in un ambiente difficile ho voluto creare, come punto di inizio della mia esperienza qui al Sant’Andrea vent’anni fa, un ambiente lavorativo tranquillo. Questo anche perché ho avuto la possibilità di scegliere tutti i miei collaboratori, perché la chirurgia toracica quando sono arrivato al Sant’Andrea ancora non esisteva. 



l’armonia che c’è tra noi grandi si riflette in un ambiente sereno al quale tengo davvero molto

Quindi l’ha creata lei? 

No, l’abbiamo creata tutti insieme. Però, quando vent’anni fa tutto è iniziato, eravamo solo io e uno specializzando. Era previsto un reparto di chirurgia toracica molto piccolo di 60 interventi l’anno e noi nel primo anno ne abbiamo fatti 350. Lo specializzando nel corso del tempo è cresciuto e quindi ne sono arrivati altri. È stato faticoso, perché abbiamo cominciato da zero, però l’aver avuto la possibilità di scegliere la mia squadra mi ha molto aiutato.

Come avviene la formazione dei vostri specializzandi?

Io adoro i ragazzi, per me sono la cosa più bella che esiste. La cosa positiva di essere professore universitario è proprio la possibilità di stare in contatto con i giovani. Siccome con i colleghi del Policlinico andiamo molto d’accordo, ci scambiamo gli specializzandi. In questo modo li esponiamo a diversi modi di fare chirurgia toracica. 

conservo una fotografia nella quale si vedono due ragazzi al tavolo operatorio e un signore con i capelli bianchi dietro di loro. È la notte del primo trapianto di polmone in Italia e Ricci ha deciso di far eseguire l’operazione a me di 32 anni e a Venuta di 29

Se dovesse individuare un episodio chiave nel suo percorso?

Nel 1989, io avevo trent’anni e il mio collega Federico Venuta, attualmente professore ordinario di chirurgia toracica al Policlinico Umberto I, ne aveva 27. Il nostro capo, il professor Costante Ricci, ci disse che da lì a tre anni avremmo fatto il primo trapianto polmonare in Italia. Ricci era un po’ un “despota” e quindi ci mettemmo subito al lavoro. Tre anni di lavoro durissimo. Alla fine, la notte tra l’11 e il 12 gennaio 1991, io e Federico Venuta abbiamo davvero fatto il primo trapianto di polmone in Italia. Nel mio studio conservo una fotografia a cui sono molto legato in cui si vedono due ragazzi al tavolo operatorio e un signore con i capelli bianchi dietro di loro. Siamo io e Federico Venuta e la persona più grande che guarda da dietro è il professor Ricci. È la notte del primo trapianto di polmone in Italia e Ricci ha deciso di far eseguire l’operazione a due ragazzi: uno di 32 anni e uno di 29. Poi in televisione è andato Ricci, perché il merito era suo, però ciò che colpisce in questa storia è la generosità straordinaria di quest’uomo: non avrei mai potuto fare una cosa di maggiore impatto in vita mia.  

non sono solo al comando, c’è un gruppo di persone che lavora con me: da soli non si va da nessuna parte

È un insegnamento che lei sta portando avanti?

Con molto meno successo, perché quello di Ricci è un esempio inarrivabile. Lui è stato un grandissimo maestro, un uomo generoso e soprattutto risolto. I chirurghi spesso soffrono della sindrome egoica, Ricci no. 

Come ci si prepara al primo trapianto di polmone? 

Quando Ricci ci ha detto che avremmo fatto questa operazione ci ha detto semplicemente di arrangiarci, e noi così abbiamo fatto. Le ricostruzioni dell’arteria polmonare e le suture che servivano per il trapianto, separate l’una dall’altra, le facevamo già. Si trattava di mettere tutto insieme. Sono stati tre anni di durissimo lavoro. Federico Venuta è stato un anno in America e io sono stato 6 mesi in Francia per osservare e imparare come facevano lì. 

Ci può parlare dell’intervento di asportazione del tumore polmonare considerato da tutti inoperabile? 

Nel tumore del polmone la prima scelta curativa è l’intervento chirurgico. Non è la migliore, ma è sicuramente la prima da prendere in considerazione. I criteri di operabilità sono basati su fattori legati al paziente, tra i quali lo stato di salute e l’età, su fattori legati al tumore, come la presenza di metastasi o se il tumore è localmente invasivo. Nel momento in cui l’operazione non può essere eseguita, si prendono altre strade terapeutiche. In questo caso, la paziente era una giovane signora con un tumore polmonare a contatto con l’arco dell’aorta. Il tumore primitivo era stato giudicato inoperabile altrove e per questo era stata sottoposta a chemioterapia che aveva ridotto il tumore ma non il contatto con l’arco aortico. L’arco aortico è un punto delicato sia perché è un crocevia di varie diramazioni dell’aorta sia perché è il vaso più grande dell’organismo che porta il sangue dappertutto, incluso il cervello. In realtà, noi avevamo già fatto altre ricostruzioni dell’aorta per tumore ma senza risonanza mediatica. In questo caso abbiamo fatto un intervento particolare senza fermare il cuore, ma trasferendo il sangue dal cuore a un’altra parte dell’aorta, isolando dal circolo sanguigno del corpo quel tratto di aorta che dovevamo sostituire. Così abbiamo garantito il flusso ematico al cervello e ai reni. Quindi abbiamo interrotto l’aorta, l’abbiamo tolta in blocco col tumore e poi l’abbiamo ricostruita con un tubo protesico. Ricostruire, paradossalmente, è molto più semplice che togliere. Ci sono state delle complicazioni post-operatorie: avevamo tentato di salvare una parte del polmone che si è rivelato più insalvabile, quindi abbiamo dovuto riportare la paziente in sala operatoria. Oggi la signora sta benissimo. È anche venuta a trovarmi pochi giorni fa.

E nessun collega aveva detto alla paziente di rivolgersi alla vostra unità chirurgica? 

No, purtroppo è difficile trovare un chirurgo che suggerisce di rivolgersi a un altro chirurgo, perché non fa quel tipo di operazione. Il problema è anche che non tutte le persone chiedono più pareri, dipende dal carattere e dalla consapevolezza della persona. Solo una persona combattiva, che ha idea del fatto che l’intervento chirurgico può veramente cambiare il corso della sua malattia, cerca con tenacia finché non trova qualcuno che può aiutarla. 

Durante la sua giornata lei fa tantissimo. È preside di facoltà, direttore dell’unità di chirurgia toracica, professore e chirurgo. Come riesce a trovare un equilibrio tra tutte queste attività? 

Perché non sono solo. La questione è questa: da soli non si va da nessuna parte. Ho dei collaboratori, direi dei colleghi, straordinari. Carla (NdR Carla Conversi), la mia segretaria, è la mia musa ispiratrice, risolve tutti i miei problemi e per questo sarebbe impensabile lavorare senza di lei. Anche in presidenza ho una segretaria meravigliosa, Laura (NdR Laura Bianchi). Poi ho una vicepreside vicario, la professoressa Pascucci, che si occupa di tantissime altre cose. Quindi non sono solo al comando, c’è un gruppo di persone che lavora con me.

dalla mia esperienza posso dire che alcuni professori universitari sono troppo autoreferenziali, soffrono della sindrome di onnipotenza e non sono sempre aperti al confronto

Se dovesse dare un consiglio alla governance per ampliare le competenze ospedaliere, quale sarebbe? 

La qualità. Per quella che è la mia esperienza posso dire che alcuni professori universitari sono troppo autoreferenziali, soffrono della sindrome di onnipotenza e non sono sempre aperti al confronto. Vivono in un ambiente protetto che non fa bene all’economia e alla cultura. Alcuni professori universitari pensano che il solo fatto di ricoprire quel ruolo garantisca loro di produrre cose di qualità per tutta la vita. Non è così, la qualità si guadagna ogni giorno. Ecco, questo è un sistema meritocratico e vale sia per l’università sia per gli ospedali. Ad esempio, le nomine dei primari ospedalieri sono discutibili, non sempre sono basate sulla qualità. L’università, finché non arriverà a una vera cooptazione dei giovani, come accade nelle migliori università internazionali, non potrà fare un salto di qualità. Ciò va fatto in modo sensato: nel momento in cui scelgo un collaboratore o una collaboratrice è mia responsabilità che questa persona valga.  

E la ricerca? 

In Italia la ricerca di base in chirurgia non viene fatta. Ci abbiamo provato in tutti i modi, ho mandato i miei collaboratori all’estero per portare alcune ricerche qua da noi, abbiamo anche cercato di collaborare coi patologi, ma non c’è stato niente da fare. Il professor Venuta, il mio collega al Policlinico, è riuscito a fare un po’ di ricerca di base, in particolare alcuni studi sull’arteria polmonare, ma con immensa fatica. Il tipo di ricerca che possiamo fare si basa sulla nostra attività chirurgica. Noi abbiamo inventato almeno cinque interventi nuovi, tre dei quali portano il mio nome. I risultati di tutto ciò che facciamo di innovativo e tutte le informazioni che desumiamo con serietà e controllo scientifico dalla nostra esperienza clinica, diventano il materiale delle nostre pubblicazioni. Non facciamo scienza di base, la nostra attività scientifica, tra virgolette, si basa sulla clinica e sulla nostra capacità di innovare in quest’ambito.

finché l’università non arriverà a una vera cooptazione dei giovani, come accade nelle migliori università internazionali, non farà un salto di qualità

Esistono dei progetti che coinvolgono i giovanissimi?

Abbiamo fatto un accordo con dei licei, in particolare con il Visconti di Roma, per cui i ragazzi che stanno frequentando gli ultimi due anni del liceo e che hanno interesse ad iscriversi a medicina vengono qui al Sant’Andrea e passano un’intera giornata con me. Mi seguono durante le visite e vengono anche in sala operatoria. È stato bellissimo stare a contatto con loro. 

Se dovesse dare un consiglio a un o una giovane che si approccia a fare il suo mestiere?

Tenacia. Ovviamente insieme a intelligenza e talento, che sono elementi importantissimi. Ma nel nostro Paese serve molta tenacia; tanti, purtroppo, si fermano prima, cedendo alla disillusione.  

Erino Angelo Rendina, chirurgo, direttore della divisione di chirurgia toracica presso l’ospedale universitario Sant’Andrea, professore ordinario e preside della facoltà di medicina e psicologia presso Sapienza università di Roma

Mattia La Torre, biologa e ricercatrice di tipo A presso il dipartimento di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza università di Roma

Sofia Gaudioso, biologa e comunicatrice della scienza, Sapienza università di Roma