il male detto

il male detto

Che cos’è il dolore? A questa domanda prova a rispondere Roberta Fulci, matematica, scrittrice, redattrice e autrice a Radio3 Scienza, nel suo nuovo libro Il male detto. In questa intervista parliamo con l’autrice di come è nata l’idea del libro e di come il dolore può essere raccontato. Ma anche della sua esperienza da giornalista scientifica e da conduttrice e autrice radiofonica. 

nel caso del dolore tutt* sappiamo di che si parla ma non lo sappiamo definire

Qual è stato il percorso che l’ha portata a essere una giornalista scientifica?

Oggi il mio lavoro principale è a Radio3 Scienza, il quotidiano scientifico di Rai Radio Tre, dove faccio parte della redazione e sono fra i conduttori. Nel resto del tempo faccio il mestiere della giornalista scientifica e quindi scrivo, faccio podcast e modero incontri. Nel mio percorso ho avuto grandissima fortuna, confesso che non avevo immaginato il giornalismo scientifico come strada da percorrere, nemmeno sapevo che esistesse. Pensavo sarei diventata una ricercatrice, infatti ho conseguito un dottorato in matematica. Scoperto il giornalismo scientifico, ho capito che sarebbe stata la cosa più giusta per me e quindi ho cambiato idea. Ho poi studiato giornalismo scientifico al master della Sissa di Trieste durante il quale ho avuto la possibilità di svolgere uno stage proprio a Radio3 Scienza. Concluso il master ho fatto altri stage e a distanza di circa un anno a Radio3 Scienza si è creata una possibilità di lavoro. Ormai sono dieci anni che collaboriamo.  

il titolo “il male detto” cattura bene l’essenza del libro ossia cercare di definire il dolore

La sua formazione scientifica l’ha aiutata?

Ho incontrato tanti giornalisti scientifici con formazione scientifica, penso siano la maggioranza. Ovviamente ci sono anche giornalisti con formazione umanistica che hanno avuto la folgorazione per le materie scientifiche. In entrambi i casi è un bellissimo modo di mettere insieme due mondi che tradizionalmente percepiamo come distanti, anche se non lo sono. La matematica che ho studiato mi è servita e mi serve tutt’ora. Sia per l’impianto teorico sia perché ho conosciuto l’ambiente universitario e il modo in cui funzionano l’accademia, le pubblicazioni scientifiche e la ricerca, aspetti fondamentali per il mio lavoro. Devo anche dire che se avessi continuato nella ricerca non credo che sarei riuscita a diventare una scienziata. E anche se ce l’avessi fatta, mi sarebbe mancata molto la componente di scrittura, di lettura e di dialogo.

avere un impianto logico forte mi aiuta anche nella scrittura. Quando mi accorgo di andare incontro a una scrittura inutilmente infiocchettata la mia parte matematica mi aiuta a eliminare gli eccessi. 

Come si passa dal linguaggio scientifico a quello letterario? 

Non credo ci sia una grande differenza. È vero che un linguaggio come quello della matematica contiene tanto formalismo, in matematica si possono scrivere frasi intere fatte solo di simboli, ed è anche vero che, purtroppo, in molti libri di matematica per le scuole le poche righe di testo sono scritte in un italiano che non spicca per leggibilità. Però trovo che avere un impianto logico molto forte mi aiuta anche a mantenere la logica del discorso e a evitare ridondanze e frasi fatte. Quando mi accorgo di andare incontro a una scrittura inutilmente infiocchettata la mia parte matematica mi aiuta a eliminare gli eccessi.  

Che ruolo ha la lettura?

Leggo tantissimi libri perché per il lavoro che faccio è necessario. Mi manca però il tempo di leggere quello che desidero senza motivo. Anche se, in verità, quando si tratta di fumetti il tempo di leggere lo trovo sempre.

Com’è nato il titolo del suo ultimo libro Il male detto?

Ci tenevo tantissimo che il titolo fosse quello, ne abbiamo discusso molto con la casa editrice. Mi piaceva perché mi sembrava che catturasse bene l’essenza del libro, ossia cercare di definire il dolore, che poi si è rivelata un’impresa impossibile. Infatti, non definisco il dolore, almeno non meglio di quanto sia già stato fatto. Il male detto è una riflessione su quanto e come è descrivibile il dolore fisico. Devo dire che è stato un viaggio davvero molto impegnativo. Ho intervistato un grande numero di persone, studiosi e ricercatori, con specializzazioni molto diverse tra loro. Non ho grandi risposte da dare però le domande che sono nate dal tentativo di definire il dolore sono molto interessanti. È stata una grandissima soddisfazione scriverlo.

l’idea è nata dall’acqua frizzante, anche se mi piace molto, penso che sia un piccolo dolore. Il punto è proprio che ognun* chiama dolore una cosa diversa

E l’idea come è nata? 

L’idea è nata dall’acqua frizzante. Quando bevo l’acqua frizzante, anche se mi piace molto, provo un piccolo dolore. I miei amici mi prendono in giro per questo, dicono che quello non è un dolore. Il punto è proprio questo: ognuno chiama dolore una cosa diversa. È chiaro che quantitativamente il dolore che provo bevendo l’acqua frizzante è poco rilevante, tuttavia mi ha fatto interrogare sulla natura qualitativa del dolore e sul fatto che non esiste un modo di descriverlo se non ricorrendo a sinonimi come il male e la sofferenza. Queste parole, però, non riescono a descrivere realmente quello che provo e il libro è invece il tentativo di trovare qualcosa di maggiormente efficace.  Ci sono tantissimi tentativi e in tantissimi ambiti ci si interroga su questo tema, dalle neuroscienze alla medicina, dall’antropologia all’evoluzione, dalla genetica alla filosofia.

C’è qualcosa che l’ha sorpresa in particolare? 

Tantissime cose, ma forse più di tutto mi ha affascinato l’ambito del placebo, perché con esso si spalancano argomenti curiosi e intriganti. Nel placebo il dolore fisico e il dolore emotivo sono in relazione tra loro perché esso funziona nel momento in cui partecipi a un rituale che ti persuade che presto starai meglio. È la prova eclatante del fatto che il dolore fisico ha a che vedere con la mente e che un pensiero e una convinzione possono incidere sulla percezione del dolore. Su questo argomento ho intervistato Fabrizio Benedetti (NdR professore ordinario di fisiologia e neuroscienze presso l’università di Torino). Un’altra cosa affascinante è stata vedere storicamente come la cultura influisce sulla percezione e sull’espressione del dolore. Per esempio, il dolore è vissuto in modo diverso se l’epoca in cui viviamo ammette o non ammette un rimedio. Infatti, nel primo caso il problema è se assumere una terapia o no. Invece, nel caso in cui un rimedio non c’è, il dolore è ineluttabile e quindi è interpretato in modo diverso. Un altro fatto interessante è che sul dolore influiscono le circostanze, come nel caso dei soldati che si feriscono e non sentono nessun dolore fino al momento in cui non sono in salvo. Tutto ciò ha dato vita a intere branche della ricerca scientifica che intendono capire che cosa influisce sulla percezione del dolore a livello neurale. Su questo argomento c’è una teoria curiosa, molto celebre e universalmente accettata, che si chiama “teoria del controllo a cancello”. Risale alla seconda metà del secolo scorso e non è stata mai del tutto confermata. È stata formulata da un neuroscienziato e da uno psicologo che hanno teorizzato il modo in cui il dolore dipenda sia da meccanismi ascendenti sia da meccanismi discendenti. Da un lato, se mi do una martellata, dal punto colpito partirà un segnale che arriva fino al cervello, dall’altra, però, un dolore potrebbe essere inibito se dal cervello arriva un segnale che dice che in questo momento non posso permettermi di provare dolore, perché per esempio sto fuggendo dalle bombe. Tuttavia, le neuroscienze ancora non sanno con precisione cosa succede quando proviamo dolore. Ad ogni modo è tutto molto affascinante. 

Che approccio ha usato per raccontare questo tema al pubblico? 

L’argomento è facile perché tutti proviamo dolore. Lo sentiamo in modo viscerale. Quindi, rispetto a un tema astruso e astratto è più semplice parlarne. Io però non sono un medico, una neuroscienziata o una biologa e quindi mi sono fatta guidare dalle mie stesse domande. In particolare mi ha guidata la necessità della definizione, un approccio che deriva dalla mia formazione matematica e dal fatto di voler sempre sapere di cosa stiamo parlando. Nel caso del dolore tutti sappiamo di che cosa si parla, ma non lo sappiamo definire, e quindi ho provato a trovare un accordo con l’interlocutore nel decidere cosa vogliamo chiamare dolore, perché alla fine è una decisione arbitraria. Ogni parola è una scelta condivisa.  

la radio funziona quando parli usando delle frasi che diresti nella vita reale

Vista la sua esperienza in radio, come si passa dal linguaggio scritto a quello parlato? 

È un esercizio che all’inizio non viene naturale, però risulta molto utile. La radio funziona quando dici delle frasi che diresti nella vita reale tralasciando termini forbiti e altisonanti. Questo non significa che in radio bisogna essere informali, perché in determinati contesti è giusto essere più formali. In generale, una parola che non userei mai nel mio quotidiano o che ho scoperto da poco non la posso usare in radio. Quindi in radio il tentativo è quello di essere il più possibile onesti, sia nel linguaggio sia nei contenuti. Quando sei davanti al microfono tendi a impostarti, la difficoltà è proprio quella di non risultare costruiti. 

Ha una preferenza tra lo scritto e il parlato?

Penso che lo scritto sia più vicino a come sono io. Quando scrivo posso riflettere su una sola frase per tutto il tempo che voglio, mentre nel parlato ciò non è possibile. Non sono in grado di improvvisare o di essere efficace all’impronta, e infatti scrivo per la radio, ovviamente in modo diverso da come scrivo un libro o un articolo. Scrivo non tanto per leggere un copione, ma perché mi piace riflettere in anticipo su quello che voglio dire e su come potrei formulare una frase che poi potrei anche cambiare mentre parlo, perché una volta in onda potrei dimenticare alcuni elementi fondamentali.

Un mestiere, quello della radio, che ha imparato sul campo. È così? 

Certo, partivo da zero. Non avevo mai immaginato di fare radio prima che mi capitasse, non era assolutamente nei miei programmi. È un mestiere per cui non si smette mai di imparare e nel quale ci si migliora col passare del tempo. Devo dire che ho avuto maestri eccezionali, tra cui Rossella Panarese, una donna che nella radio era a suo agio in un modo davvero inusuale. Ho visto tante persone lavorare in radio, ma di rado una capacità nell’oralità, nel dialogo, nello stare in studio e al microfono come quella di Rossella Panarese. Aveva una maestria incredibile, assistere quotidianamente al suo lavoro è stato un insegnamento enorme.

Secondo lei esiste una verità scientifica?

Penso di sì, ma è provvisoria e in continuo sviluppo. Una verità scientifica di oggi fra cento anni potrebbe essere estesa in modi per cui quella verità risulterebbe insufficiente. In matematica invece, si pensa che la verità esista, sebbene un centinaio di anni fa abbiamo scoperto che non è vero neanche questo: Kurt Gödel ha dimostrato come la matematica ammetta delle affermazioni che non potremo mai sapere se sono vere o false. È un grande insegnamento perché ci dà la misura di quanta arbitrarietà ci sia nella nostra conoscenza, anche semplicemente nello stabilire che cosa è vero e che cosa è falso. Questo non lo dico per mettere in discussione il metodo scientifico, ma per dire che sono sicura che tra mille anni il metodo scientifico avrà un altro aspetto. 

Rossella Panarese è stata una maestra eccezionale, assistere quotidianamente al suo lavoro è stato un insegnamento enorme

Un personaggio che l’ha ispirata?

Sono stata una ragazza che leggeva tantissimo, quindi sono affezionata a molti autori, ma non mi sono mai focalizzata su uno in particolare. Però a un certo punto del mio percorso ho scoperto grazie a Elisabetta Tola, la mia relatrice di tesi al master della Sissa, RadioLab, unpodcast americano nato diversi anni fa. È sorprendente perché tratta di argomenti scientifici con profondità senza essere tecnico e accademico, anzi, è anche molto divertente. Ha una costruzione di tipo autoriale e di montaggio che è un capolavoro. Da RadioLab ho imparato tantissime cose, a partire dal modo di guardare gli argomenti scientifici. Il mio tentativo, prendendo spunto da quel podcast, è proprio quello di toccare argomenti molto vasti partendo dalle domande e con un linguaggio che non si prende troppo sul serio.  

come consiglio direi di provare cose mai fatte prima. Se non avessi fatto così oggi mi divertirei molto meno

Che consiglio darebbe a una giovane che vuole diventare giornalista scientifica?

Diversificare il più possibile qualsiasi esperienza di acquisizione. Questo vuol dire leggere tantissimo, formarsi in modi diversi, spostarsi, andare fisicamente a curiosare in una redazione, contattare le persone e anche praticare cose mai fatte prima. Questo consiglio vale per tutti a tutte le età. Provare più cose possibili è utile per trovare quello che più ci piace perché il rischio di non intercettarlo è grande, è veramente un pericolo concreto e sarebbe un peccato. Quindi direi di sperimentare. È vero che non è facile dirsi “oggi imparo un mestiere” perché siamo tutti pigri, però sono molto grata di aver avuto l’occasione di provare delle cose inaspettate perché oggi starei facendo delle cose che mi divertono molto meno. 

Roberta Fulci, matematica, scrittrice, giornalista scientifica, redattrice e autrice a Radio3 Scienza e docente al master “la scienza nella pratica giornalistica” presso il dipartimento  di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza università di Roma

Sofia Gaudioso, biologa e comunicatrice della scienza, Sapienza università di Roma

Edison Di Pietro, dottorando di genetica e biologia molecolare presso il dipartimento  di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza università di Roma, laboratorio diretto da Isabella Saggio