one health

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Essere umano, piante e animali. Specie diverse ma con una stessa origine genetica e un habitat in comune, nonché nodi di una rete complessa, all’interno della quale l’essere umano si distingue come forza capace di modificare in profondità gli equilibri del pianeta. Questo è il presupposto alla base del concetto di One Health, il fulcro delle riflessioni di Giovanni Destrobisol, antropologo, professore associato presso Sapienza università di Roma, e Luca Savarino, filosofo morale, professore associato presso l’università del Piemonte Orientale, protagonisti del corso di alta formazione “Nature and Politics”

solo a partire dagli anni ’70 si è iniziato a discutere dell’impatto delle attività umane sul pianeta

Se parlassimo del concetto di One Health, della unitarietà tra la natura e tutti i suoi componenti a un uomo degli Yanomamö – tribù sudamericana stanziata tra il Sud-Est del Venezuela e il Nord-Ovest del Brasile – per lui sarebbe un concetto scontato”. Questo l’incipit del discorso sull’evoluzione di Giovanni Destrobisol, antropologo alla Sapienza università di Roma, in occasione della terza giornata del corso di alta formazione “Nature and Politics” organizzato dal master “la scienza nella pratica giornalistica” della Sapienza università di Roma e promosso dal National Biodiversity Future Center.L’unitarietà è implicita nella visione e nello stile di vita delle comunità lontane dallo sviluppo tecnologico. Al contrario, la società occidentale ha trasformato il consumismo nel suo modello evolutivo a scapito delle risorse terrestri e del legame primordiale che univa natura e cultura.

La tutela della biodiversità è il presupposto per salvaguardare gli equilibri presenti in natura dai quali dipende la sopravvivenza di tutte le specie, essere umano incluso. Solo a partire dagli anni ’70 si è iniziato a discutere dell’impatto delle attività umane sul pianeta, figlie di un modello capitalistico improntato sulla massimizzazione dei profitti e sullo sfruttamento sistematico delle risorse naturali. Questo modo di agire ha avuto numerose ricadute, tra cui la perdita di habitat di molte specie animali e la conseguente insorgenza di nuove malattie infettive come la SARS, l’Ebola e il Covid-19. 

ai ritmi attuali non sarà possibile raggiungere l’obiettivo di mantenere l’aumento medio della temperatura entro la soglia di 1,5°C rispetto al periodo preindustriale

Nella seconda parte della giornata, Luca Savarino, filosofo morale all’università del Piemonte orientale, si è concentrato sul concetto di antropocene. Coniato da Paul Jozef Crutzen nel 2000, il termine è apparso per la prima volta in un articolo su Nature con riferimento al ritrovo delle microplastiche nelle falde più profonde del pianeta e si riferisce alla capacità umana di alterare l’ecosistema per la prima volta in 12000 anni. “La stabilità del sistema terreste è sempre stato il presupposto non tematizzato, implicito, di qualsiasi discorso sulla responsabilità morale e politica” ha aggiunto Savarino. Il termine ha suscitato non poche critiche sia nel mondo scientifico – da cui trae origine – sia in quello umanistico, per il forte peso attribuito all’essere umano da un lato e per il modello economico basato sul capitalismo dall’altro – in questo caso, quindi, la colpa non sarebbe dell’essere umano in quanto tale. Stiamo assistendo a un cambio di paradigma nel quale il significato implicito di natura e cultura sta sfumando, lasciando spazio alla ‘naturalizzazione’ dei processi sociali e culturali.

Non si può più parlare di una causalità semplice e lineare. Per Savarino, l’insorgenza di una pandemia come quella Covid-19 e i cambiamenti climatici devono essere osservati come fenomeni emergenti da un sistema complesso, provocati da cause distanti nello spazio e nel tempo e per i quali è necessario un nuovo approccio politico ed etico.

le attività umane hanno provocato un aumento medio di almeno 1,1°C e l’obiettivo ora è di non oltrepassare i 2°C e anticipare al 2040 il raggiungimento della neutralità carbonica da parte dei Paesi sviluppati

L’ultimo rapporto sul clima pubblicato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, chiarisce alle istituzioni l’urgenza di agire e attuare misure per mitigare gli effetti della crisi climatica nei prossimi decenni. Il segretario generale António Guterres ha definito questo documento “una guida di sopravvivenza per l’umanità. E ci dimostra come il limite di 1,5°C sia ancora raggiungibile”.

Il Synthesis Report, pubblicato il 20 marzo 2023, è la parte finale del sesto rapporto di valutazione (AR6) dell’IPCC. La revisione completa delle conoscenze scientifiche sulla crisi climatica ha richiesto otto anni di lavoro a centinaia di scienziati e raccoglie tutti i messaggi chiave dei lavori precedenti. Il prossimo rapporto dell’IPCC non arriverà prima del 2030 e quindi l’AR6 è di fatto la guida scientifica che dovrà informare la transizione energetica in questo decennio davvero cruciale per la comunità internazionale e il pianeta.

Il documento chiarisce che ai ritmi attuali non sarà possibile raggiungere l’obiettivo di mantenere l’aumento medio della temperatura entro la soglia di 1,5°C rispetto al periodo preindustriale. Infatti, secondo le analisi effettuate, le attività umane hanno provocato un aumento medio di almeno 1,1°C e l’obiettivo ora è di non oltrepassare i 2°C e anticipare al 2040 il raggiungimento della neutralità carbonica da parte dei paesi sviluppati.

nel 2021 si stima che il mondo abbia prodotto 63,3 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, scarsamente riciclati, nonché una quantità superiore al peso della Grande Muraglia cinese

L’emergenza climatica, la riduzione della biodiversità, il rischio di pandemie sono al centro dell’attenzione e richiedono azioni tempestive ed efficaci. Un valido supporto proviene dalla ricerca scientifica e dalle nuove tecnologie, in particolare l’intelligenza artificiale, che possono ottimizzare la gestione delle risorse e minimizzare l’impatto delle attività umane sulla natura. I modelli predittivi permettono, ad esempio, di prevedere e gestire al meglio le emergenze e contenerne l’impatto. Il lato scuro dell’innovazione tecnologica è la forte richiesta di energia e l’uso di materiali inquinanti per la fabbricazione dei dispositivi realizzati. Nel 2021 si stima che il mondo abbia prodotto 63,3 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, scarsamente riciclati, nonché una quantità superiore al peso della Grande Muraglia cinese.

I più grandi ecologi, tra cui Rachel Carson e Barry Commoner, sostenevano già negli anni ’70 che la natura ha spesso le risposte migliori per curarsi ed è urgente un cambio di rotta a partire dall’azione del singolo individuo. Forse, come suggerisce Giovanni Destrobisol, dovremmo osservare con attenzione gli Yanomamö che, rimasti lontani dal mondo tecnologico, vivono in armonia con la natura e colgono dalla vita qualcosa che noi, “umani tecnologici”, non riusciamo più a sentire.

Alessio Castiglione, Marco Paturzo, Alessandra Romano e Marco Tannino, student* del master “la scienza nella pratica giornalistica” presso il dipartimento  di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza università di Roma https://web.uniroma1.it/mastersgp/