Organoidi Forse-Vita in Miniatura

Dall’auto-organizzazione delle cellule staminali in vitro agli organoidi. Alessandro Rosa sui sistemi di biologia cellulare integrata.

È possibile creare un organo in provetta? Gli organoidi sono forse quanto di più vicino ad un organo nativo oggi la ricerca è riuscita a “produrre”. Questi organoidi simulano, nelle tre dimensioni un organo e vengono generati a partire dalle cellule staminali già pluripotenti – ovvero cellule capaci di differenziare in qualunque cellula dell’organismo – o da cellule adulte, riprogrammate per ritornare indietro nel differenziamento a cellule staminali pluripotenti. Seppur con alcune limitazioni, gli organoidi rappresentano un sistema integrato di biologia cellulare. Utile per rispondere a quesiti biologici complessi per i quali la classica coltura delle cellule in due dimensioni risulta insufficiente ed un’utile alternativa alle complesse interpretazioni derivabili dallo studio dei modelli animali. Alessandro Rosa ci racconta la storia e le applicazioni in un viaggio che inizia nel XX secolo.

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Letteralmente, il termine “organoide” indica un oggetto che “assomiglia ad un organo”. Un organoide è infatti un costrutto biologico tridimensionale che ha origine da cellule staminali attraverso un processo definito “auto-assemblaggio” o “auto-organizzazione”. Quando alcuni tipi di cellule staminali sono libere di differenziare in vitro, non solo producono la varietà di cellule che compongono un tessuto del corpo, ma si organizzano anche nello spazio in modo da riprodurre l’architettura di quel tessuto. Inoltre, sono in grado di svolgere alcune delle attività del tessuto reale. In definitiva, l’organoide che ne risulta simula, fino ad un certo punto, la composizione, la forma e la funzionalità di un organo nativo.

L’evidenza che alcuni tipi di cellula, quando coltivati ​​al di fuori dell’organismo da cui derivano, hanno la capacità di auto-assemblarsi in associazioni più complesse risale a studi dell’inizio del XX secolo sulle prime colture cellulari da specie semplici. Il moderno campo di ricerca sugli organoidi è iniziato però in tempi recenti, con esperimenti sulle cellule staminali isolate dall’epitelio intestinale di topo. Nel 2009, il gruppo di ricerca di Hans Clevers a Utrecht, in Olanda, ha scoperto che particolari cellule staminali isolate dalle cripte (invaginazioni tubulari dell’epitelio intestinale) non solo sono in grado di generare per differenziamento la varietà di cellule che compongono quel tessuto (enterociti, cellule caliciformi mucipare, cellule di Paneth e cellule enteroendocrine), ma anche che lo fanno organizzandosi spontaneamente in caratteristiche strutture 3D se coltivate “in sospensione”, ossia non adese alla piastra di coltura. Questi organoidi intestinali hanno un lume interno, regioni che assomigliano ai villi intestinali e domini tipo cripta che, proprio come le cripte intestinali vere e proprie, mantengono una riserva di cellule staminali indifferenziate. Gli organoidi intestinali di Clevers rappresentano utili strumenti per la ricerca biomedica, ad esempio per sviluppare terapie per la fibrosi cistica e il morbo di Crohn. Questa ricerca ha anche aperto la strada allo sviluppo di altri tipi di organoidi derivati ​​da cellule staminali adulte con un carattere epiteliale, compresi organoidi polmonari utilizzati per la ricerca sul COVID-19.

Uno degli ambiti in cui gli organoidi possono trovare maggiori applicazioni riguarda lo studio del sistema nervoso. Le cellule del nostro cervello svolgono le loro funzioni in un ambiente tridimensionale altamente organizzato. La possibilità di contattare altre cellule nelle tre dimensioni è fondamentale per stabilire le connessioni alla base del funzionamento dei neuroni. Le classiche colture di cellule neuronali in monostrato, bidimensionali, in cui le cellule sono adese a supporti di plastica o vetro, non riproducono in maniera appropriata le caratteristiche del microambiente in cui i neuroni e le cellule di supporto si trovano in vivo. Gli organoidi cerebrali, invece, rappresentano in maniera più fedele l’architettura del sistema nervoso. Per generare organoidi cerebrali vengono utilizzate cellule staminali dette pluripotenti. Queste staminali, che hanno la capacità di differenziare in qualunque cellula dell’organismo, possono essere derivate dall’embrione prima dell’impianto dell’utero (cellule staminali embrionali), oppure da cellule adulte tramite un processo definito “riprogrammazione” (cellule staminali pluripotenti indotte, o cellule iPS). È interessante notare come cellule neurali derivate per differenziamento da staminali pluripotenti abbiano una notevole capacità di auto-organizzarsi anche in un ambiente bidimensionale, generando le cosiddette “rosette neurali”, associazioni di cellule a geometria radiale con un lume centrale attorno al quale i progenitori neurali sono disposti come i raggi di una bicicletta. Le rosette neurali sono considerate l’equivalente di sezioni trasversali del tubo neurale, la struttura che durante lo sviluppo embrionale precede la formazione del sistema nervoso centrale. In altri termini, è come se queste cellule tendessero a riprodurre l’architettura del tessuto neurale in fase di sviluppo. Essendo però vincolate a farlo in condizioni non fisiologiche, su due dimensioni invece di tre, il risultato è l’equivalente di una “fetta” del tubo neurale. 

Nel 2013 Madeline Lancaster, nel laboratorio di Juergen Knoblich a Vienna, sviluppa un metodo per la coltivazione a lungo termine, in sospensione, di cellule neurali derivate da staminali pluripotenti. A differenza delle colture bidimensionali in adesione, se le staminali pluripotenti differenziano in sospensione si formano delle strutture sferiche, dette “neurosfere”, che con il tempo crescono in dimensione grazie alla proliferazione dei progenitori neurali. La coltura a lungo termine delle neurosfere è normalmente limitata dal fatto che il terreno di coltura non riesce a penetrare quando si supera una certa taglia, portando alla formazione di zone necrotiche all’interno della neurosfera. Il metodo della Lancaster consiste nel coltivare le neurosfere in bioreattori rotanti, in modo da favorire gli scambi gassosi e di nutrienti anche all’interno di esse. Nell’arco di alcune settimane, le neurosfere evolvono in organoidi cerebrali in cui l’organizzazione delle varie cellule neurali riproduce la stratificazione della corteccia del cervello umano. Questo lavoro ha spianato la strada ad ulteriori ricerche volte a generare organoidi rappresentativi di altre regioni del sistema nervoso, sempre a partire da cellule staminali pluripotenti. Più recentemente, sono stati sviluppati anche sistemi più complessi, quali gli organoidi neuromuscolari, in cui neuroni motori sono connessi a fibre muscolari, ed “assembloidi”, generati dalla fusione di singoli organoidi con specifiche caratteristiche regionali (ad esempio, organoidi cerebrali dorsali e ventrali). Ad oggi gli organoidi cerebrali sono utilizzati per lo studio e lo sviluppo di approcci terapeutici per diverse malattie del sistema nervoso, prima tra tutte la microcefalia, e per comprendere i meccanismi di infezione di virus, quali Zika. Inoltre, essi costituiscono sistemi modello in vitro di tumori al cervello se combinati con cellule cancerose da pazienti. Una delle applicazioni più affascinanti degli organoidi cerebrali riguarda il campo di studio dell’evoluzione del cervello umano. Comparando organoidi cerebrali derivati da cellule staminali pluripotenti umane o di primati non umani, stiamo iniziando a comprendere quali sono le differenze chiave che portano allo sviluppo di un cervello più complesso nell’essere umano rispetto ai nostri “parenti” più stretti.

Il campo di ricerca degli organoidi è piuttosto giovane, e bisogna tenere presente che questi sistemi cellulari presentano ancora notevoli limitazioni. Innanzitutto, non bisogna pensare ad un organoide come un organo in miniatura: solo fino ad un certo punto viene riprodotta la complessità degli organi veri e propri, sia in termini di composizione cellulare che di architettura. Inoltre, gli organoidi mancano della componente vascolare, per cui la dimensione che essi possono raggiungere è comunque limitata. Infine, la riproducibilità degli organoidi cerebrali è spesso imperfetta, con notevoli differenze tra un batch e l’altro, rendendo più difficile trarre informazioni conclusive dagli esperimenti. Tuttavia, a nostro avviso, lo sforzo di molti gruppi di ricerca nel superare questi limiti sta già portando la tecnologia degli organoidi al grado di maturazione necessario per rendere possibili innumerevoli applicazioni in ricerca di base e applicata.

Alessandro Rosa, Biologo molecolare presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma

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