Violenze di genere                                                                   

Violenze di genere                                                                   

Quando il sentire si interseca con il sapere

La Scuola Superiore di Studi Avanzati Sapienza organizza una giornata di dialogo sul fenomeno, sistemico, della violenza di genere. Il 14 marzo si è svolto infatti l’evento “Le violenze di genere”, moderato da Silvia Piconese (Junior Fellow SSAS), Isabella Saggio (Senior Fellow SSAS) e Vittorio Lingiardi (Senior Fellow SSAS).

Concita de Gregorio, prima relatrice, apre la giornata portando l’esempio di Elena Cecchettin, una ragazza con la forza di trasformare il suo vissuto personale in atto politico. Elena è una studentessa universitaria che, suo malgrado, si trova in prima serata perché sorella di una vittima di femminicidio. Elena spezza il modello di narrazione tradizionale che ruota attorno alle famiglie delle vittime e non chiede silenzio ma rumore che, nella sua dignità, si fa assordante. Il rumore, inteso come atto di ribellione, è importante non solo per prevenire l’atto finale del femminicidio ma anche per farci allontanare da quel sentimento di vergogna che àncora le donne a situazioni tossiche. La parte più dolorosa, raccontata da Concita de Gregorio, è la consapevolezza di Elena che il femminicidio della sorella si sarebbe, prima o poi, potuto compiere. Quando Giulia non rientra a casa, dopo l’appuntamento con Filippo Turetta, già immagina il peggio.  

La mattinata prosegue con Lucia Pelle, allieva SSAS e studentessa Gender Studies che fornisce alcuni dati e concetti per comprendere meglio il fenomeno della violenza, come l’introduzione nel 1989 dell’ipotesi sociologica del concetto di intersezionalità di Kimberlé Crenshaw: i sistemi di oppressione che coinvolgono le donne sono molteplici e simultanei e per mettere in discussione i singoli comportamenti dobbiamo, conseguentemente, mettere in discussione la struttura intera di società.  Interessante è inoltre analizzare l’atteggiamento della società verso le vittime. Quando ad esempio subiamo un furto non ci viene mai chiesto “perché vai in giro con il portafogli?”. Le donne vittime di violenza non solo subiscono vittimizzazione primaria, ovvero l’aggressione, ma vengono sottoposte anche a vittimizzazione secondaria che le colpevolizza per la violenza subita. “Perché sei andata in quel quartiere?”, “Come eri vestita?”, queste sono solo alcune frasi, tipiche, della vittimizzazione secondaria. La vittimizzazione terziaria prevede invece una giustizia depotenziata, ovvero l’aggressore non viene individuato e/o punito.

Uno strumento utile per monitorare la rappresentazione sociale della violenza di genere attraverso i media, nonché lo stato dell’arte del Manifesto di Venezia[1], è l’Osservatorio indipendente STEP. Il fenomeno della violenza di genere viene infatti spesso identificato, sui media, come “lite familiare”, “problema privato”, “gelosia”, “raptus”. La violenza diviene quasi una reazione, spesso anche legittimata, a un’azione della donna. La Dott.ssa Pelle mostra come esempio il titolo “Ubriache fradice al party in spiaggia, due quindicenni violentate dall’amichetto.”, dove le vittime vengono dipinte come “poco di buono” nell’immaginario collettivo e il molestatore sarebbe solo un loro “amichetto”. Il messaggio che passa è che due ragazze minorenni, attraverso le loro azioni, hanno determinato una reazione. 

La narrazione dominante del fenomeno minimizza il problema della violenza domestica, tendenzialmente ancora normalizzata. Tale normalizzazione è retaggio di una cultura che fino al 1956 ammetteva lo ius corrigendi, cioè il diritto dell’uomo di “educare e correggere”, anche con l’uso della forza, moglie e figli. Soltanto nel 1969 viene dichiarato incostituzionale l’articolo 559 del Codice penale che punisce unicamente l’adulterio della moglie.

Per comprendere il fenomeno nella sua totalità è imprescindibile analizzare il punto di vista maschile. È quello che fa Stefano Ciccone con la sua associazione, Maschile Plurale, il cui intervento mette in luce come spesso si parli di violenza come forma di devianza, disordine, invasione, patologia, pulsione, tutte definizioni che sembrano “riguardare altro da noi”, mentre la violenza, in realtà, siamo noi. 

In un determinato immaginario erotico maschile esiste ancora il concetto di “donna preda” a cui è associata la volontà di doverla “salvare”. In questo tipo di narrazione è quindi prevista la possibilità di correggere la propria compagna, difendere l’onore maschile, mantenere il controllo, conquistare e possedere. La forza, il possesso, la manipolazione psicologica diventano quindi armi per mantenere il controllo. Inoltre, oggi, gli autori delle violenze si raccontano spesso come vittime: quante volte abbiamo sentito la frase “perché non parliamo di maschicidi?”. Si tratta di vittimismo dei dominanti in quanto il cambiamento va a minacciare, in qualche modo, l’ordine sociale, gli uomini e la loro identità. È così che nasce l’idea del complotto anti-maschile o della dittatura del politicamente corretto. Il liberamente trasgressivo, anche se offensivo verso il sesso femminile, passa come elemento di rottura mentre chi richiama all’ordine come il moralista di turno. Tuttavia, Gino Cecchettin spezza questa catena mettendosi in gioco, cambiando il proprio modo di essere padre e aprendosi all’ascolto attivo. L’unico modo per costruire è, infatti, decostruire. 

La Prof.ssa Anna Maria Speranza, Direttrice del Dipartimento di Psicologia Dinamica, Clinica e Salute della Sapienza, introduce invece il tema della psicoterapia e del fondamentale ruolo del counseling nei centri anti-violenza e nelle istituzioni. Il counseling, ovviamente, aumenta la consapevolezza delle persone di ciò che stanno subendo e ciò che vivono. Siamo abituati a considerare solo gli esiti della violenza, ovvero i femminicidi, ma vi è tutta un’altra parte che comprende il vissuto quotidiano e altre forme di violenza invisibili. 

Spaventoso è inoltre il fenomeno della teen violence, ovvero gli atteggiamenti di violenza che si manifestano tra ragazzi adolescenti. Riguardano una varietà di comportamenti che vanno dall’abuso fisico e sessuale a forme di violenza psicologica ed emotiva. Una percentuale di ragazze accetta rapporti sessuali non desiderandoli, per accontentare il desiderio dell’altro. Queste forme, meno visibili, di violenza non solo anticipano qualcosa di più grave ma divengono fonte di forte sofferenza. Un’indagine di federazione Libellula, network di aziende unite contro la violenza sulle donne, ha chiesto a un gruppo molto ampio di adolescenti che cosa ne pensassero rispetto a una serie di dinamiche di relazione. Ebbene, molti di loro ritengono opportuno geolocalizzare il partner, sapere con chi è quando è fuori, controllare i profili, scegliere i vestiti del partner. Gelosia e attenzioni morbose, anche tra i più piccoli, sono quindi considerate manifestazioni di interesse. Risulta dunque necessario agire per evitare la normalizzazione di tali comportamenti. 

Conclude l’evento la Prof.ssa Annamaria Giannini, Direttrice del Dipartimento Psicologia della Sapienza, soffermandosi sul tema della formazione delle forze dell’ordine, in particolare ricordando come la criminologia si sia sempre occupata dell’autore e poco della vittima, e come, gradualmente, si sia arrivati anche al riconoscimento dei bisogni di quest’ultima. 

Affrontando le varie dimensioni del fenomeno della violenza di genere appare evidente quanto sia necessario creare occasioni e luoghi di incontro simili.  

Sentire, per poter empatizzare, e sapere per poter avere piena consapevolezza delle nostre azioni.                                                                                                                    

di Martina Benedetti – Master SPG


[1] Il manifesto di Venezia è il manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto della parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini.